Pensavo di accodare questo messaggio al forum HCV ma ritengo che la positività all'HIV stimoli delle ulteriori considerazioni legate soprattutto al problema dell'immunodepressione.
Infermiere professionale di 27 aa neodipendente di casa di cura privata, addetto alla preparazione/somministrazione di antiblastici (!!) oltre che a tutte le altre attività infermieristiche di reparto (spesso Jolly in sala operatoria), è risultato positivo al test per l'HIV. Il test è stato effettuato su richiesta esplicita di molti lavoratori della stessa struttura nonchè del lavoratore in questione che già lo eseguiva regolarmente ogni tre mesi essendo soggetto a rischio.
Sorvolando la difficoltà incontrata nel dover comunicare tale risultato al lavoratore, posso dire che il mio primo passo è stato quello di indirizzare lo stesso in un centro di alta specializzazione della nostra città e di fornirgli immediatamente tutte le informazioni relative ai rischi ed ai sistemi di prevenzione e protezione da adottare.Adesso, in attesa dei risultati dei test specifici di tipizzazione, sono alle prese con altri mille ragionamenti relativi al suo giudizio di idoneità, alla mia volontà di non creare alcuna discriminazione, alla necessità di tutelare la integrità psico-fisica del lavoratore che ha/avrà come problematica prevalente l'immunodepressione.
Mi sono documentata su questo argomento ancora molto controverso ma non sono sicura di avere dipanato tutti i miei dubbi perciò vorrei lanciare una discussione sul tema certa che arriveranno opinioni interessantissime. Grazie a tutti.
Nessuna impresa e' mai stata compiuta da un uomo ragionevole
Cara collega,
alcune domande, magari "cattive", ma necessarie:
1) in fase di assunzione hai pensato, naturalmente previo consenso, a procurarti un "tempo zero" in ordine alla sierologia HIV del lavoratore?
2) la positività è collegabile con evento infortunistico (taglio, schizzo, spruzzo, puntura) a rischio con paziente malato di AIDS o comunque, positivo all'antigene?
3) Mi paiono assolutamente lodevoli i tuoi mille ragionamenti per evitare discriminazioni, di tutelare l'integrità psico fisica del lavoratore; peraltro, vale il principio, sancito dalla Corte Costituzionale, che, sulle aspettative del singolo, prevelgono gli interessi della collettività.
Pertanto chiarita qual'è la causa che ha determinato la positivizzazione dell'HIV nell'operatore (infermiere professionale) di cui trattasi, vale la pena di chiarire fondamentalmente due cose:
1) quale rischio derivante dal lavoro che svolge questo infermiere sanitario può provocare, come conseguenza diretta o indiretta, un aggravamento delle sue condizioni cliniche? Assai poche, vista anche la difficoltà con cui si tramette l'HIV professionalmente e tenuto conto del fatto che l'AIDS costituisce un problema completamente diverso rispetto ad alcuni anni fa, viste le terapie antiretrovirali che cronicizzazno la malattia.
2) Quale rischio può derivare al paziente dal fatto che l'operatore è sieropositivo per HIV? Pressochè nessuno, sempre che l'operatore non svolga manovre invasive con taglienti o aghi cavi "al buio" (ostetriche, ginecologi, chirurghi generali - a volte);
Per avere informazioni più dettagliate sull'argomento ti consiglio di visionare gli atti del Convegno sul rischio da agenti biologici tenutosi a Torino nel Settembre 2000
Vedi, in questo sito, alla voce libri consigliati
Cordialità
Riccardo FALCETTA
Carissimo raflauberto,
prima di ogni cosa ti ringrazio per aver raccolto il mio "appello". Voglio rispondere subito alle tue domande "cattive" (non mi sembrano poi così cattive) ma necessarie.
1) Il lavoratore è giunto alla mia osservazione non in visita preventiva ma in "prima visita" dato che è stato assunto senza che io fossi interpellata. Detto ciò ritengo che il lavoratore fosse sieronegativo fino a quattro mesi fa (si è offerto di mostrarmi l'ultimo test). Tale convinzione è rafforzata dal fatto che il lavoratore, dopo il primo momento di visibile shock, ha immediatamente accettato il mio intervento per indirizzarlo alla struttura di specialità.
2) La positività non è collegabile ad evento infortunistico (come inizialmente avrei potuto pensare dato che lo stesso aveva lavorato per due anni in un centro dialisi) infatti dopo un lungo colloquio volto ad indagare su tale evenienza ho finalmente saputo che lo stesso effettuava il test autonomamente in quanto omosessuale.
Chiarite le tue lecite curiosità voglio precisare che il giovane infermiere non è affetto da AIDS ma è "solo" siero positivo e peraltro totalmente asintomatico.
Concordo pienamente che nessun rischio per la collettività (pazienti e colleghi) è ipotizzabile se il nostro lavoratore effettua le normali attività di un infermiere professionale (concordo ulteriormente sulle eventuali perplessità per personale medico che pratica specialità chirurgiche o parachirurgiche).
Allo stato attuale ritengo vitali due questioni:
1) effetti dell'esposizione cronica diretta e indiretta ad antiblastici in un soggetto che è "teoricamente" (aspettiamo i risultati degli esami specialistici) immunodrepresso. Conosciamo bene gli effetti della immunodeficienza sull'insorgenza delle neoplasie.
2) effetti dell'esposizione accidentale ad agenti biologici per i quali è impossibile ulteriore protezione mediante vaccino (vedi TBC che è controindicata per gli ovvi motivi e HCV per altrettanti ovvi motivi).
In definitiva, dato per certo che il rischio zero non esiste è doveroso domandarsi: atteso che vengano poste in essere tutte le azioni volte a ridurre il rischio antiblastici (cappe a flussi laminari, mezzi di protezione per cute, mucose e vie respiratorie, procedure standardizzate per la preparazione delle terapie e per la somministrazione, etc etc) e lo stesso venga fatto per il rischio da agenti biologici, è il nostro operatore un soggetto "altamente suscettibile" rispetto alla "coorte" infermieri esposti? E se si, tale suscettibilità indviduale dovrebbe essere motivo di limitazioni rispetto alla mansione?
In verità mentre sul secondo punto ritengo che il rischio sia "accettabile" (considerato che il lavoratore non effettua manovre invasive "al buio" nè attività di assistenza ai tavoli operatori o alle sale parto), non sono altrettanto sicura sulla questione "esposizione ad antiblastici".
Grazie per il suggerimento bibliografico.
Cordialmente
Susanna
Nessuna impresa e' mai stata compiuta da un uomo ragionevole
A mio modesto parere, la limitazione per gli agenti antiblastici andrebbe data, cautelativamente, in attesa degli accertamenti specialistici; senz'altro qualora questi dovessero risultare non favorevoli al soggetto. Per il resto credo rimanga sempre il dubbio se il soggetto, non malato, sia già (o meno) in una situazione di maggiore vulnerabilità. Se la struttura in cui lavora avesse la possibilità, consiglierei comunque un cambio di mansione. In bocca al lupo!
"La cosa più incomprensibile dell'universo è il fatto che l'universo sia comprensibile" A. Einstein
Mi riallaccio a questo post per chiedere un vostro parere. Studente di infermieristica che in visita preventiva nega il consenso all'esecuzione dell'HIV. A breve deve iniziare i tirocini pratici previsti dal suo corso di laurea. L'accertamento è previsto dal protocollo sanitario della struttura ospedaliera ospitante e inoltre è indicato chiaramente anche nell'accordo scritto tra Università e stutture ospedaliere ospitanti. Come vi comportereste con l'idoneità? E' chiaro che il rischio verso terzi è sostanzialmente zero, e lo stesso dicasi per il rischio di infettarsi dello studente stesso. Ma dal punto di visita medico-legale? Se si punge con un paziente infetto l'effettuazione del test al tempo zero (ammesso che fornisca poi il consenso in quella circostanza) sarebbe sufficiente a scagionare il Medico Competente in caso di positivizzazione successiva? A me personalmente irrita molto questo comportamento dello studente e non lo trovo giustificabile in uno che vuole intraprendere una carriera in ambito sanitario. Forse potrei rilasciare una idoneità con limitazioni all'effettuazione di pratiche invasive (EPP), cosa che di fatto costringerebbe i suoi tutor a non consentirgli il tirocinio pratico e quindi, in ultima istanza, non gli consentirebbe di laurearsi?
Magari puo' esserti utile: https://www.pnes.salute.gov.it/im...265_listaFile_itemName_6_file.pdf
Offerta (passivamente) a tutti la possibilità di farlo, volendo anche fuori dalla periodicità, se accetta o richiede di farlo firma il consenso. In caso di infortunio offerta attiva da parte dell'operatore del servizio MC che gestisce l'evento. Ovviamente con firma del consenso. Il T0 cristallizza la situazione preesistente, quindi è di garanzia.
Conte_Vlad_III il 16/10/2024 04:38 ha scritto:
Magari puo' esserti utile: https://www.pnes.salute.gov.it/im...265_listaFile_itemName_6_file.pdf
Offerta (passivamente) a tutti la possibilità di farlo, volendo anche fuori dalla periodicità, se accetta o richiede di farlo firma il consenso. In caso di infortunio offerta attiva da parte dell'operatore del servizio MC che gestisce l'evento. Ovviamente con firma del consenso. Il T0 cristallizza la situazione preesistente, quindi è di garanzia.
Ottimo, grazie.
Sonnambulo il 16/10/2024 10:49 ha scritto:
Mi riallaccio a questo post per chiedere un vostro parere. Studente di infermieristica che in visita preventiva nega il consenso all'esecuzione dell'HIV. A breve deve iniziare i tirocini pratici previsti dal suo corso di laurea. L'accertamento è previsto dal protocollo sanitario della struttura ospedaliera ospitante e inoltre è indicato chiaramente anche nell'accordo scritto tra Università e stutture ospedaliere ospitanti. Come vi comportereste con l'idoneità? E' chiaro che il rischio verso terzi è sostanzialmente zero, e lo stesso dicasi per il rischio di infettarsi dello studente stesso. Ma dal punto di visita medico-legale? Se si punge con un paziente infetto l'effettuazione del test al tempo zero (ammesso che fornisca poi il consenso in quella circostanza) sarebbe sufficiente a scagionare il Medico Competente in caso di positivizzazione successiva? A me personalmente irrita molto questo comportamento dello studente e non lo trovo giustificabile in uno che vuole intraprendere una carriera in ambito sanitario. Forse potrei rilasciare una idoneità con limitazioni all'effettuazione di pratiche invasive (EPP), cosa che di fatto costringerebbe i suoi tutor a non consentirgli il tirocinio pratico e quindi, in ultima istanza, non gli consentirebbe di laurearsi?
La questione del consenso era stata introdotta, come sappiamo, dalla legge 135/90 per evitare la "discriminazione" dei lavoratori. Discriminazione che magari all'epoca (piena ondata di AIDS) poteva essere comprensibile. Poi nel 1994 la Corte Costituzionale ha definito incostituzionale il divieto di fare il test HIV su lavoratori esposti. E mi pare che gli operatori sanitari siano esposti a tale rischio.
La sintesi, senza voler fare l'avvocato delle cause perse, è la solita che riguarda il MC:
- C'è il rischio sul lavoro? Sì;
- Il MC ha strumenti per tutelare la salute del lavoratore? Sì, fare il test a tempo zero e poi periodicamente per ovvie ragioni che tutti sappiamo;
- Il test comporta un rischio accettabile per la salute del lavoratore (sono più i benefici che i rischi?)? Sì;
- Si viola il segreto professionale facendo il test HIV al lavoratore e quindi lo si potrebbe "discriminare"? NO. Anche perchè il MC deve tutelare la salute del lavoratore e non del paziente (il rischio per terzi è previsto solo per alcol e droga) e non potrebbe rivelare a nessuno l'esito del test. Quindi il giudizio di idoneità non cambierebbe e il lavoratore potrebbe comunque mantenere il posto di lavoro. Però si farebbe eventualmente diagnosi precoce e si avvierebbe il lavoratore alle cure del caso e alle tutele INAIL.
Conclusione della questione lo studente di infermieristica che vuol fare l'avvocato potrebbe cambiare corso di laurea intanto. In un caso simile per uno studente di infermieristica che non voleva fare la vaccinazione COVID il Prof. Lo Palco correttamente disse "questi studenti studiano poco e male".
Il test HIV è uno strumento di tutela del MC verso il lavoratore che, messo in protocollo sanitario, diventa obbligatorio, pena la modifica del giudizio di idoneità. E questo credo sia tacito.
Se poi si inizia a dire "no, vabbè, tanto il tipo si mette i guanti e tutti gli altri DPI possibili così il rischio diventa trascurabile", a questo punto non fare nemmeno i test per HBV, HCV ecc ecc, che tanto è uguale. Anzi, fatti firmare la famosa fuorilegge liberatoria, in cui lo studente rifiuta anche tutto il resto della sorveglianza sanitaria che tanto ci sta attento da sè a non ammalarsi. Così risparmiamo energie e soldi pubblici e tu ti eviti pure la perdita di tempo.
Insomma, siamo alle solite.
A pensar male si fa peccato ma ci s'azzecca!
faggiano.danilo il 18/10/2024 02:44 ha scritto:
La questione del consenso era stata introdotta, come sappiamo, dalla legge 135/90 per evitare la "discriminazione" dei lavoratori. Discriminazione che magari all'epoca (piena ondata di AIDS) poteva essere comprensibile. Poi nel 1994 la Corte Costituzionale ha definito incostituzionale il divieto di fare il test HIV su lavoratori esposti. E mi pare che gli operatori sanitari siano esposti a tale rischio.
Concordo sul fatto che lo studente in questione dovrebbe cambiare università... oppure, in alternativa, ho proposto ai suoi docenti di segarlo a ripetizione agli esami, perché è questo che si merita :-)
La sintesi, senza voler fare l'avvocato delle cause perse, è la solita che riguarda il MC:
- C'è il rischio sul lavoro? Sì;
- Il MC ha strumenti per tutelare la salute del lavoratore? Sì, fare il test a tempo zero e poi periodicamente per ovvie ragioni che tutti sappiamo;
- Il test comporta un rischio accettabile per la salute del lavoratore (sono più i benefici che i rischi?)? Sì;
- Si viola il segreto professionale facendo il test HIV al lavoratore e quindi lo si potrebbe "discriminare"? NO. Anche perchè il MC deve tutelare la salute del lavoratore e non del paziente (il rischio per terzi è previsto solo per alcol e droga) e non potrebbe rivelare a nessuno l'esito del test. Quindi il giudizio di idoneità non cambierebbe e il lavoratore potrebbe comunque mantenere il posto di lavoro. Però si farebbe eventualmente diagnosi precoce e si avvierebbe il lavoratore alle cure del caso e alle tutele INAIL.
Conclusione della questione lo studente di infermieristica che vuol fare l'avvocato potrebbe cambiare corso di laurea intanto. In un caso simile per uno studente di infermieristica che non voleva fare la vaccinazione COVID il Prof. Lo Palco correttamente disse "questi studenti studiano poco e male".
Il test HIV è uno strumento di tutela del MC verso il lavoratore che, messo in protocollo sanitario, diventa obbligatorio, pena la modifica del giudizio di idoneità. E questo credo sia tacito.
Se poi si inizia a dire "no, vabbè, tanto il tipo si mette i guanti e tutti gli altri DPI possibili così il rischio diventa trascurabile", a questo punto non fare nemmeno i test per HBV, HCV ecc ecc, che tanto è uguale. Anzi, fatti firmare la famosa fuorilegge liberatoria, in cui lo studente rifiuta anche tutto il resto della sorveglianza sanitaria che tanto ci sta attento da sè a non ammalarsi. Così risparmiamo energie e soldi pubblici e tu ti eviti pure la perdita di tempo.
Insomma, siamo alle solite.
Concordo sul fatto che lo studente debba cambiare università, oppure ho proposto ai suoi docenti di segarlo a ripetizione agli esami in quanto non è degno di diventare infermiere :-).
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