Sommario
Per esaminare a fondo la problematica in ordine alla sussistenza (o meno) di un dovere del datore di lavoro di sottrarre il lavoratore da mansioni suscettibili di pregiudicare (o aggravare) lo stato di salute - problematica alla quale, lo anticipiamo per il lettore, forniremo una risposta positiva, con le necessarie argomentazioni di supporto - e, conseguentemente, per giungere ad affermare la sussistenza di un diritto del prestatore allo spostamento da mansioni pregiudizievoli per la salute ad altre (semprechè sussistenti in azienda), bisogna partire dall'orientamento inaugurato - dopo molte vicissitudini ed imperando una difforme concezione improntata ad insensibilità - dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998 (1).
Con tale decisione la Suprema Corte, ribaltando un orientamento ultradecennale legittimante il licenziamento del lavoratore, ex art. 1464 c.c., divenuto inidoneo al disimpegno delle mansioni assegnategli, ha affermato che, anche per tale fattispecie, vige l'obbligo di repechage asserito come condizione propedeutica per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ex art. 3 L. n. 604/1966, quale la soppressione del posto di lavoro, ecc.). Il datore di lavoro, per essere più chiari, prima di poter licenziare per sopravvenuta inidoneità alle mansioni assegnate al lavoratore deve, quindi, necessariamente sperimentare la possibilità di un reimpiego del medesimo in altre mansioni più consone al suo stato di salute, semprechè sussistenti in azienda, ed al limite anche in mansioni inferiori - con il consenso dell'interessato - in vista di salvare il bene dell'occupazione, superiore a quello della dequalificazione professionale, condizione oramai ritenuta valida per non incorrere nel divieto previsto dall'ultimo comma dell'art. 2103 c.c., contemplante la nullità di "patti contrari" finalizzati al declassamento.
Il nocciolo dell'argomentazione delle sezioni unite risiede nella seguente considerazione:
Nel rapporto di lavoro subordinato la tutela dell'interesse del lavoratore all'adempimento trova il suo fondamento nei richiamati artt. 4 e 36 della Costituzione e serve quale criterio di interpretazione e di determinazione secondo buona fede degli effetti del contratto, il quale dà luogo non solo ad un rapporto di scambio ma inserisce il prestatore nella comunità d'impresa e destina la sua prestazione all'organizzazione produttiva. Ne discende che l'evento impeditivo, quale la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, dev'essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione dell'imprenditore-creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti necessari all'esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell'oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall'art. 2103 del codice civile.
Ciò induce a non accogliere la tesi secondo cui, divenuta parzialmente impossibile la prestazione lavorativa, il residuo interesse all'adempimento debba essere apprezzato soggettivamente - senza alcuna possibilità di controllo da parte del giudice, interprete del contratto - dall'imprenditore/creditore, a cui spetterebbe perciò un diritto potestativo di recesso, con la corrispondente situazione di mera soggezione del lavoratore. Ammesso che l'infermità dia sempre luogo ad un'impossibilità parziale e non anche, talora, ad un semplice mutamento qualitativo della prestazione, è da osservare che la tesi dell'apprezzamento soggettivo di tale interesse è stata seguita in giurisprudenza con riferimento a contratti di scambio, quale la vendita [...], ma non è sostenibile per il contratto di lavoro, ove l'oggetto della prestazione coinvolge la stessa persona umana ed ove i già richiamati valori costituzionali impongono una ricostruzione dei rapporti d'obbligazione nell'ambito dell'organizzazione dell'impresa e secondo la clausola generale di buona fede, tale da attribuire con diversi criteri gli obblighi di cooperazione all'imprenditore.
Sarà perciò il giudice di merito che, avuto riguardo alle residue capacità di lavoro del prestatore ed all'organizzazione dell'azienda come definita insindacabilmente dall'imprenditore, valuterà la persistenza dell'interesse alla prestazione lavorativa, secondo buona fede oggettiva.
Sono le medesime conclusioni cui era giunta una parte della dottrina - sebbene con differenti argomentazioni - quando, criticando il vecchio orientamento, asseriva (2) che:
Le conclusioni raggiunte dall'orientamento rigorista, su di un piano di stretto diritto privato, vanno pertanto armonizzate con i principi pubblicistici in tema di promozionalità e difesa dell'occupazione (art. 4 Cost.), di non emarginazione e di integrazione sociale, di non colpevolizzazione delle minorazioni e delle flessioni dello stato di salute, principi tutti implicanti l'adattamento della prestazione - nei limiti di un riscontro organizzativo - alle mutate condizioni di salute del lavoratore. Il che significa che l'azienda non dovrà certo creare - per mero assistenzialismo - posizioni superflue ma che, al verificarsi dell'evento della "inabilità parziale", essa dovrà verificare al suo interno se sussistono effettive incombenze o posizioni di lavoro compatibili con la menomazione ove egualmente impiegare, con apprezzabile proficuità, il lavoratore medesimo e, correlativamente dimostrare, nel caso di ricorso al licenziamento per g.m.o., che esso si è imposto, quale extrema ratio, per l'assenza di alternative.
In tal modo - e secondo noi correttamente - viene inserita una così delicata fattispecie nell'orientamento postulante il repechage, prima dell'estromissione dall'azienda, orientamento consolidatosi [...] per legittimare, in caso di ristrutturazioni aziendali, il licenziamento per l'identica causale del giustificato motivo oggettivo.
In buona sostanza sarà l'azienda a dover dimostrare, come in tutti i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'impossibilità di riutilizzo del lavoratore in altre mansioni - primariamente equivalenti ex art. 2103 c.c. e, secondariamente - attesa l'oramai intervenuta legittimazione (3) di pattuizioni di "declassamento concordato o consensuale" (al solo scopo di evitare il licenziamento) - in mansioni anche non equivalenti ed inferiori ma suscettibili di salvaguardare il bene dell'occupazione (più che lo stato di salute), potendo l'imprenditore - secondo le sezioni unite - rifiutare l'assegnazione a mansioni equivalenti (o anche inferiori) quando ciò "comporti aggravi organizzativi ed in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell'invalido", precisazione quest'ultima che non inficia assolutamente la posizione della sezione lavoro che aveva suggerito lo spostamento dell'invalido, da attuarsi anche secondo turn-over nelle di lui mansioni mansioni da parte di colleghi meno usurati (così Cass. n. 5961/1997, citata in nota 1).
Ora se è stato correttamente affermato che il lavoratore menomato nello stato di salute e divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni contrattuali non può essere licenziato per il venir meno dell'interesse del datore di lavoro alla residua prestazione ma deve essere ricercata in azienda - senza comportare aggravi organizzativi - la possibilità di un reimpiego in mansioni più consone allo stato di salute che il lavoratore può proficuamente disimpegnare, senza pregiudizio per le sue minorate condizioni, non può non sussistere (peraltro, a monte) un dovere datoriale di "prevenire" il deterioramento psico/fisico del lavoratore medesimo a causa delle mansioni svolte.
Quello che si vuol dire è che - dato per scontato oramai che sussiste un dovere dell'azienda di sottrarre i lavoratori "collettivamente intesi& quot; da mansioni o lavorazioni oggettivamente morbigene - a nostro avviso sussiste anche un diritto del "singolo lavoratore", caratterizzato da una particolare conformazione organica e da una eventuale fragilità, ad esempio, dell'apparato cardio/vascolare (soggetti ad ipertensione arteriosa, ecc.), dell'apparato osteo/articolare (scoliotici e simili), dell'apparato respiratorio (asmatici ed allergici, ecc.), dell'apparato neurologico (soggetti labili, ansiosi, depressi, ecc.) ad essere sottratto allo svolgimento di mansioni "soggettivamente" pregiudizievoli per la salute, da parte del datore di lavoro cui sia stata notificata e documentata (tramite probante certificazione sanitaria) la potenziale o effettiva dannosità delle mansioni assegnate.
Il problema del "dovere" o "obbligo" datoriale di sottrarre da mansioni pregiudizievoli si sposta dai lavoratori intesi quale "collettività" al "singolo" prestatore di lavoro, giacchè determinate mansioni o lavorazioni indifferenti per la collettività - e quindi non oggettivamente morbigene - possono risultarlo per quel "singolo lavoratore", in ragione ed a causa della sua particolare conformazione o struttura organica.
L'esistenza di tale dovere è desumibile - inequivocamente - dalla sussistenza in capo al datore di lavoro di un obbligo a contenuto amplissimo ed a connotazione "prevenzionale", costituito dalla prescrizione dell'art. 2087 c.c. secondo cui "l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". Questo obbligo "prevenzionale" di salvaguardia della integrità psico/fisica si salda e si rafforza con la necessaria lettura dell'art. 32 Cost. che afferma quale obbligo dello Stato quello della "tutela della salute come fondamentale diritto dell' individuo e interesse della collettività".
Non può, pertanto, che essere considerata oscurantista e superata quella giurisprudenza che afferma che:
nel caso in cui determinate mansioni o condizioni di lavoro, pur non essendo oggettivamente morbigene - ed essendo quindi esclusa una violazione degli obblighi gravanti ex art. 2087 c.c. sul datore di lavoro - siano pregiudizievoli per la salute di un determinato lavoratore, determinandone un ricorrente stato di malattia, il datore di lavoro, salva espressa previsione di legge o di contratto, non & egrave; tenuto ad adibire il dipendente ad altre mansioni. Conseguentemente & egrave; legittimo il licenziamento di quest'ultimo attuato dopo il superamento del periodo di conservazione del posto (4).
Queste decisioni - che oltre tutto appartengono, nella quasi totalità, al pregresso orientamento assertore dell'irrilevanza per il (ed indifferenza del) datore di lavoro nei confronti delle malattie determinanti impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione, materia nella quale ha operato una svolta la gia citata Cass. sez. un. n. 7755/1998, nel senso di asserire l'obbligo datoriale del reperimento di mansioni compatibili con lo stato di salute e di residua idoneità lavorativa del prestatore d'opera - non sono affatto condivisibili perchè forniscono una lettura restrittiva dell'obbligo prevenzionale contenuto nell'art. 2087 c.c., escludendo che lo stesso possa riguardare il singolo (con le sue individuali fragilità e la sua particolare conformazione organica) e, per contro, riservando le misure di salvaguardia datoriali solo per la "collettività" dei lavoratori.
Quanto andiamo dicendo non costituisce affatto una nostra opinione soggettiva, poichè le più recenti e migliori decisioni della Cassazione - che relegano le opposte opinioni sopra riferite nell'alveo di un orientamento superato o in via di superamento - affermano che:
È soggetto a responsabilità risarcitoria per violazione dell'art. 2087 c.c. il datore di lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore, continui ad adibirlo a mansioni che sebbene corrispondenti alla sua qualifica siano suscettibili - per la loro natura e per lo specifico impegno (fisico e mentale) - di metterne in pericolo la salute.
L'esigenza di tutelare in via privilegiata la salute del lavoratore alla stregua dell'art. 2087 c.c. e la doverosità di una interpretazione del contratto di lavoro alla luce del principio di correttezza e buona fede, di cui all'art. 1375 c.c. - che funge da parametro di valutazione comparativa degli interessi sostanziali delle parti contrattuali - inducono a ritenere che il datore di lavoro debba adibire il lavoratore, affetto da infermità suscettibili di aggravamento a seguito dell'attività svolta, ad altre mansioni compatibili con la sua residua capacità lavorativa, sempre che ciò sia reso possibile dall'assetto organizzativo dell'impresa, che consenta un'agevole sostituzione con altro dipendente nei compiti più usuranti.
Quando ciò non sia possibile, il datore di lavoro può far valere l'infermità del dipendente quale titolo legittimante il recesso ed addurre l'impossibilità della prestazione per inidoneità fisica - in applicazione del generale principio codicistico dettato dall'art. 1464 c. c. - configurandosi un giustificato motivo oggettivo di recesso per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, e restando in ogni caso vietata la permanenza del lavoratore in mansioni pregiudizievoli al suo stato di salute (5).
In questa decisione fondamentale, riguardante una fattispecie relativa ad un lavoratore, in età non più giovanile, colpito, in dipendenza da stress causato dall'impegno lavorativo e dalle condizioni di espletamento della prestazione - dipendenza o causalità accertata da consulenza tecnica d'ufficio - da infarto miocardico, la Cassazione ha asserito che l'art. 2087 c.c., che tutela, nell'ambito dell'organizzazione dell'impresa, il bene della salute psico/fisica protetto dall'art. 32 Cost., fa si che, anche nel caso in cui la sopravvenuta inabilità non sia riconducibile ad infortunio sul lavoro (che postula la c.d. "causa violenta" che determini una brusca rottura dell'equilibrio organico e non un evento lesivo costituente l'effetto lento e progressivo di condizioni gravose di lavoro che abbiano minato gradualmente l'organismo del prestatore, come nella fattispecie esaminata), sorga a carico del datore di lavoro una responsabilità risarcitoria per c.d. "danno biologico", nel caso in cui non provveda ad adibire il lavoratore (cioè a spostarlo) a mansioni più confacenti con il suo minorato stato di salute, tali da precludere un aggravamento della salute medesima.
L'obbligo datoriale sussiste compatibilmente con la sussistenza di posizioni di lavoro confacenti in azienda per il lavoratore inabile - ivi inclusa la sostituzione nei compiti più usuranti con altro lavoratore più idoneo dal punto di vista dello stato salute - senza naturalmente che la stessa azienda sia costretta a creare per l'inabile una posizione non necessaria dal punto di vista organizzativo e produttivo.
E la Suprema corte giunge, nella sopra riferita decisione, a queste conclusioni adducendo che
i principi di correttezza e di buona fede che devono presiedere all'esecuzione del contratto di lavoro ai sensi dell'art. 1375 c.c., richiedono - in ossequio a quanto imposto dall'art. 2087 c.c. - che il datore di lavoro, a conoscenza di un'infermità del lavoratore incompatibile con le mansioni affidategli, deve mettere in atto tutte e misure a tutela dell'integrità psico/fisica del suo dipendente, incorrendo conseguentemente in responsabilità per danni alla salute che il dipendente stesso abbia subito per essere stato indotto a continuare un' attività lavorativa che, per la sua natura e le concrete modalità di svolgimento, sia suscettibile di determinare un aggravamento delle sue gi& agrave; precarie condizioni di salute.
Nello stesso senso - cioè a dire per un obbligo prevenzionale mirato al "singolo lavoratore" - si è espressa, poi, una successiva decisione della Cassazione del 1 settembre 1997, n. 8267 (6) secondo la quale:
In ottemperanza all'art. 41, comma 2°, Costituzione, secondo cui la libertà di iniziativa economica incontra l'imprescindibile limite di non arrecare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana, il datore di lavoro non può esimersi dall'adottare tutte le misure necessarie - compreso l'adeguamento dell'organico - volte ad assicurare livelli competitivi di produttività senza compromissione, tuttavia, dell'integrità psico fisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo e di dimensionamento della struttura aziendale. La regola consolidata nell'ambito del'art. 2087 c.c. prescrive che l'attività di collaborazione cui l'imprenditore è tenuto in favore dei lavoratori, non si esaurisca nella predisposizione di misure tassativamente imposte dalla legge ma si estende alle altre iniziative o misure che appaiono utili per impedire il sorgere o il deterioramento di una situazione tale per cui lo svolgimento dell'attività lavorativa determini, con nesso di causalità, effetti patologici o traumatici nei lavoratori.
La fattispecie decisa atteneva ad un Capo Ufficio dell'Ente Autonomo Fiera del Levante di Bari, il quale - a causa della stressante attività cui aveva dovuto sottoporsi (per carenza di organico nell'Ufficio cui era preposto) al fine di fronteggiare il carico di lavoro del medesimo, attività che gli aveva comportato reiterata effettuazione di lavoro straordinario fino al limite (monte ore) annuo consentito contrattualmente delle 500 ore e rinuncia ai periodi di ferie annuali - era incorso in un infarto miocardico che la Consulenza Tecnica d'Ufficio aveva accertato essere causalmente conseguente allo stress accumulato, per il cui danno alla salute il lavoratore aveva richiesto il risarcimento del relativo danno biologico.
Tale danno gli era stato poi riconosciuto in misura di 300 milioni dal Tribunale di Foggia in data 12 dicembre 1998- che la Cassazione aveva designato come sede di rinvio - ma l'azienda aveva sollevato eccezioni (adducendo sia l'insussistenza di colpa datoriale per mancanza di una imposizione al superlavoro attribuibile all'azienda sia di un concorso nel danno alla salute ad opera dell'abitudine del lavoratore di fumare 15 sigarette al giorno e della familiarità ipertensiva da parte materna).
La Cassazione, di nuovo pronunciatasi con sentenza del 5 febbraio 2000, n. 1307 (7), nel rigettare tutte le argomentazioni ed eccezioni aziendali, riconfermava i principi espressi da Cass. n. 8267 del 1 settembre 1997.
Nello stesso orientamento si pone anche parte della giurisprudenza di merito, tra cui Pret. Roma 14 giugno 1988 (8) secondo la quale:
le misure che l'imprenditore deve adottare ai sensi dell'art. 2087 c.c. devono essere individuate anche con riferimento a posizioni di singoli lavoratori dotate di tratti di peculiarità. Pertanto, nel caso in cui un lavoratore versi in una condizione patologica che ne determini una particolarissima vulnerabilit& agrave; alla fatica, il datore di lavoro, in osservanza ai doveri di prudenza e diligenza di cui all'art. 2087 c.c., è tenuto ad attivarsi allo scopo di rintracciare un'adeguata collocazione al dipendente.
La violazione di tale dovere determina per l'imprenditore un obbligo di risarcimento di danno, con riferimento non solo alla capacità produttiva di reddito del lavoratore, ma anche al c.d. danno biologico, inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica della persona in sè e per sè considerata, in quanto incidente sul "valore uomo in tutta la sua dimensione".
Conformi alla impostazione secondo la quale l'obbligo di sottrazione del lavoratore da condizioni e/o mansioni di lavoro pregiudizievoli - anche soggettivamente, in ragione di predisposizione del lavoratore a certe sindromi o patologie insorgenti in capo allo stesso o aggravantesi per mantenimento in mansioni e condizioni ambientali di lavoro, oggettivamente non morbigene, in quanto indifferenti per altri ma pregiudizievoli per quel soggetto a motivo della sua particolare conformazione congenita - si rivelano le affermazioni di Cass. sez. lav. 21 gennaio 2002, n. 572, la quale ha esplicitamente confermato l'orientamento da noi sopra esposto, con le seguenti significative affermazioni:
L'art. 2087 c. c. impone, all'imprenditore, quale disposizione di chiusura di tutta la disciplina antinfortunistica ed anche indipendentemente dalle specifiche misure previste dalla legge per le varie lavorazioni, di adottare nell'esercizio della impresa tutte le cautele e gli accorgimenti che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza, la tecnica e le condizioni di salute dei dipendenti, si appalesino necessari ed idonei a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale degli stessi, adoperandosi, nei limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello specifico settore della impresa.
È giurisprudenza consolidata, in tema di legittimità del licenziamento del lavoratore disattendendo la sua richiesta di accertamento della possibilità di altro impiego in azienda, determinata dalle condizioni di salute, che una corretta interpretazione degli artt. 1463, 1464 Cod. Civile e 3 legge n. 604 del 1966 comporta che la sopravvenuta infermità permanente del dipendente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso datoriale dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile nella sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore soprattutto se determinata da patologia strettamente ancorata al tipo di lavorazione, come nella specie, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile, alla stregua di una interpretazione del contratto secondo buona fede, alle mansioni attualmente assegnate od a quelle equivalenti (ex art. 2103 Cod. Civile) o, in ipotesi di impossibilità, anche a mansioni inferiori purchè accettate dal dipendente, a condizione che detta diversa attività sia utilizzabile nell'impresa secondo i finì programmati dalla stessa e nel quadro dell'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore (Cfr. S. U. n. 7755/1998; Cass.n. 7908/97).
Con il corollario che il datore di lavoro soddisferà l'onere, impostogli dall'art. 5 legge n. 604/1966, di provare il giustificato motivo di licenziamento, dimostrando che, nell'ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate, un conveniente impiego dell'infermo non è possibile o, comunque, compatibile con il buon andamento dell'impresa, e fermo restando il contrapposto onere del lavoratore di contrastare la detta prova, indicando a sua volta specificamente le mansioni esercitabili e non nocive per la sua salute, nonchè dimostrando la sua idoneità alle stesse (9).
Il principio è stato espresso in una fattispecie in cui un impiegato esattoriale (con compiti di riscossione coattiva dei tributi, accessi nelle abitazioni dei contribuenti, pignoramenti, ecc.) colpito da sindrome depressiva acuta di tipo nevrotico sanitariamente documentata - in ragione della tipologia del lavoro, riscontrato da specialisti abnormemente stressante per le di lui capacità di reazione psicologica -, in conseguenza della quale il lavoratore aveva rivolto reiterate sollecitazioni scritte all'azienda per un mutamento di mansioni, atte ad evitare la cronicizzazione della patologia, richieste nei cui confronti l'azienda aveva assunto un atteggiamento di indifferenza o trascuratezza con l'effetto che la permanenza nelle mansioni, aveva indotto il lavoratore ad assenze superanti il periodo di comporto contrattuale per sommatoria, incorrendo così nel licenziamento ex art. 2110 c.c., licenziamento che, proprio in ragione dell'inadempienza datoriale al dovere prevenzionale ex art. 2087 c.c., la S. corte ha dichiarato illegittimo.
Del tutto condivisibile e degna di attenzione è la lettura dell'art. 2087 c.c. - in chiave tutela datoriale del lavoratore "personalizzata" secondo le di lui "condizioni di salute" individuali - che si riverbera nell'obbligo per l' imprenditore di "adoperarsi, nei limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello specifico settore della impresa".
E si sottolinea come non si tratti di un "obiter dictum", quanto di una deliberata statuizione tramite cui la S. corte ha rigettato la tesi della difesa aziendale, incentrata sull'affermazione di un insussistente dovere di attivazione ex art. 2087 c.c., in quanto - secondo la difesa datoriale - la ricerca di mansioni non nocive si sarebbe imposta per l'azienda solo ove queste lo fossero state "oggettivamente" nocive, mentre trattandosi nel caso di specie di
mansioni e condizioni di lavoro non oggettivamente morbigene, ma pregiudizievoli per la salute del ricorrente unicamente per fattori soggettivi e psicologici, determinandone un ricorrente stato di malattia, nessun addebito poteva muoversi a parte datoriale [...].
Argomentazione e tesi che la Cassazione, con la motivazione innanzi riportata, ha dichiarato esplicitamente non condivisibili.
Ad analoghe conclusioni - in ordine all'illegittimità del licenziamento per superamento del comporto di malattia, in un caso similare in cui l'azienda aveva fatto "orecchio da mercante" a fronte delle richieste di mutamento di mansioni di un'addetta alle pulizie affetta da sclerosi multipla (certificata ed accompagnata da invito sanitario di collocazione in mansioni meno usuranti) - è giunto, quasi contemporaneamente, in sede di merito, Trib. Pisa 10 gennaio 2002, che ha statuito che:
La malattia o le malattie del lavoratore non giustificano il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ove l'infermità abbia avuto causa, in tutto o in parte, nella nocivit& agrave; insita nella modalità di esercizio delle mansioni o comunque esistente nell'ambiente di lavoro, della quale il datore di lavoro sia responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminare l' incidenza, in adempimento dell'obbligo di protezione ed eventualmente anche delle specifiche norme di legge connesse alla concretizzazione di esso, incombendo peraltro al lavoratore di dare la prova del collegamento causale fra la malattia che ha determinato l'assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate.
(Cass. n. 5066/00)
Ne consegue che dalla durata della malattia vanno scomputate le assenza imputabili a negligenza o colpa aziendale, riveniente, in fattispecie, dal fatto di non aver l'azienda preso in alcuna considerazione, ex art. 2087 c.c., le reiterate richieste della lavoratrice (affetta da sclerosi multipla) di essere spostata, sussistendone le condizioni organizzative, ad altre mansioni meno usuranti (10).
Va addizionalmente evidenziato che qualora dall'omissione delle cautele e misure prevenzionali discendenti dall'art. 2087 c.c. (a tutela dell'integrità psico/fisica e della personalità morale) discenda a carico del lavoratore un infortunio od una malattia professionale (o comunque un tangibile pregiudizio all'integrità della salute), la giurisprudenza è pacificamente consolidata per l'automatica ricorrenza del reato di "lesioni colpose", asserendo che:
l'accertamento che l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale sono stati determinati da negligenza o inosservanza delle disposizioni di legge e quindi dei doveri posti dallo stesso art. 2087 c.c., implica l'affermazione dell'esistenza nel fatto degli estremi costitutivi del reato di lesioni colpose (11).
ex artt. 590 e 583 c.p.
Il principio era stato in precedenza affermato dalla Cassazione (12) secondo la quale:
in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro (e delle malattie professionali, n.d.r.) il disposto dell'art. 2087 c.c. ha carattere generale e non contrattuale come si desume dallo stesso titolo (tutela delle condizioni di lavoro) nonchè dal suo particolare contenuto normativo, per cui, quantunque la predetta norma sia inserita nel codice civile, essa pone specifici doveri di comportamento antinfortunistico a carico del titolare dell'impresa, la cui effettiva inosservanza integra il delitto di cui al 2° comma, art.590 c.p.
riscontrabile e procedibile d'ufficio, come ha riconosciuto Cass. 20 aprile 1998, n. 4012 (13).
Ed ancora la Cassazione in una antecedente sentenza (14) ha sostenuto:
in tema di misure antinfortunistiche (e a tutela delle malattie professionali, n.d.r.) l'art. 2087 c.c., laddove impone all'imprenditore l'adozione di tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, determina un obbligo di comportamento che trova la sua fonte nella Costituzione [...] Ne consegue che la violazione del prefato obbligo da parte dei destinatari della normativa a tutela dei lavoratori integra il precetto penale ogniqualvolta ne derivi un danno agli addetti
con diritto per quest'ultimi - dal lato civilistico - al risarcimento del danno biologico e del danno morale (riconducibile ex art. 2059 c.c., a reato, nel caso di lesioni colpose), come ha sancito la già citata Cass. n. 4012 del 20 aprile 1998 e come, più di recente, ha confermato Cass. n. 4129 del 22 marzo 2002 (15), la quale si è così inequivocamente espressa:
Nel danno sopportato dal lavoratore in conseguenza della mancata osservanza da parte del datore di lavoro (o del soggetto comunque tenuto a garantirne la tutela) degli obblighi di sicurezza impostigli dall'art. 2087 c.c., rientra anche il danno morale quante volte da quell'inosservanza siano derivate al dipendente lesioni personali o uno stato di malattia, acquisendo in tal caso la condotta del datore di lavoro anche un rilievo penale che giustifica l'attribuzione del risarcimento ex art. 2059 c.c.
Le riflessioni che abbiamo sviluppato e l'orientamento che si sta imponendo - nel senso dell' obbligo datoriale di spostamento del lavoratore da mansioni e lavorazioni "soggettivamente" pregiudizievoli per la salute ad altre più consone, in conseguenza sia del dovere "prevenzionale" ex art. 2087 c.c. sia del più generale dovere di cooperazione, scaturente da correttezza e buona fede del creditore-datore di lavoro, finalizzate a consentire al debitore dell'obbligazione lavorativa che questa venga resa in aderenza al suo carattere contrattuale - ci sembrano le più corrette, moderne e rispondenti a rispetto dell'individuo e solidarietà verso le posizioni dei più deboli e meno fortunati (gli ammalati, i disabili, le figure sociali reclamanti naturalisticamente protezione quali la lavoratrice, nel particolare periodo della gravidanza e del puerperio, e simili).
Ciò detto ci spiace veramente dover invece leggere - ancor oggi - opinioni espressive di impostazioni più "crude" che considerano ancora lo stato di malattia come condizione non già di bisogno ma di
colui che ha la fortuna di essere malato (in verità la prova ufficiale è estremamente facile - dice l'autore - data la notoria compiacenza dei sanitari (16)
per il quale non si vede la ragione per cui debba fruire del " privilegio nel confronto con il lavoratore non ammalato", di non essere licenziato, come il sano, per giustificato motivo soggettivo ex art. 3 L. n. 604/1966, ma solo per giusta causa ex art. 2119 c.c. Fino ad arrivare - lo stesso autore - alla conclusione che
forse c'è spazio per sollevare una questione di legittimità costituzionale in termini di ragionevolezza nel confronto che ne deriva [...] tra lavoratori a seconda che siano malati o no. Come si spiega il privilegio dei malati? Solo la Corte costituzionale potrebbe con autorevolezza spiegarlo (17).
Non credo sia necessario disturbare i Giudici della Consulta nè difficile, per chi non sia affetto da pregiudizi, rendersi conto che le situazioni delle c.d. "fasce deboli" necessitano e sono meritevoli - da parte di una Costituzione, di un legislatore e di una interpretazione giurisprudenziale - di una impostazione di favore, anche se acquisisce carattere di anomalia apparente (come nel caso esaminato, nella fattispecie, dell'art. 2110 c.c.). Impostazione di favor non già immotivata ma "pienamente motivata" e meritoria per il suo carattere progressista e solidaristico che trova fondamento, riscontro e riconferma quotidiana nelle parole degli eredi migliori dei nostri padri costituenti e degli esponenti della dottrina sociale cattolica (e non).
Altre frasi del precitato articolo dell'autore - cui lasciamo il beneficio del dubbio dell'essere, forse, da noi mal comprese - lasciano a dir poco perplessi, e tra queste la domanda: "A mio avviso ci si deve chiedere se, in questa zona di protezione rispetto agli eventi della malattia e della gravidanza, il datore di lavoro sia 'espropriato' della possibilità di gestire al meglio i rapporti di lavoro, in particolare potendo liberarsi dei soggetti il cui rapporto sia valutabile in termini solo negativi" (pag. 157), ovvero:"La periodica disoccupazione, con la conseguenza delle necessità elementari di vita, possono ben servire a raddrizzare il cervello di persone non disponibili a fruttuosa collaborazione. Del resto, dopo tanto vociare contestatario, l'aspirazione diffusa è quella di poter tornare a gemere sotto il dominio del capitale" (pag. 158).
Non credo che sia rispettoso per i nostri giovani rappresentare la loro legittima aspirazione al diritto al lavoro come professione di sottomissione incondizionata ai datori di lavoro solo perchè hanno in mano (e non & egrave; certo poco!) le loro "opportunità d'impiego" (e di formarsi una famiglia), nè ritengo che l'auspicata disponibilità alla "fruttuosa collaborazione" vada barattata, sempre dai nostri giovani, con la dismissione dei propri diritti civili e sindacali, in una parola costituzionali, dismissione che "sembrerebbe" essere presupposta (anche se inespressa) dal precitato autore come indefettibile modalità per dimostrare che si è ad essi "raddrizzato il cervello".
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