L'intervento del giudice Guariniello al Congresso Nazionale Simlii di Giardini Naxos ha toccato un punto che il magistrato aveva già segnalato in altri convegni: l'impossibilità da parte del medico competente di esprimere giudizi di idoneità nel corso di visite richieste dai lavoratori.
Questo intervento ha generato, inevitabilmente, molta confusione e preoccupazione tra gli addetti ai lavori.
Va chiarito come la segnalazione del giudice non faccia riferimento ad una sua opinione personale o ad un nuovo elemento legislativo, ma ad una precisa sentenza della Corte di Cassazione (911/01 Farabi).
Per i meno esperti di giurisprudenza va ricordato come una sentenza della Corte di Cassazione non comporti, per gli altri giudici di merito, in alcun modo un vincolo di adeguamento; questo a maggior ragione per una sentenza isolata come questa, che non ha, cioè, avuto per ora conferme da altre sentenze analoghe. Una sentenza, cioè, "per fare giurisprudenza" deve essere confermata più volte o essere espressa dalle sezioni unite della Cassazione: infatti, anche a riguardo della sorveglianza sanitaria, ricordo, vi sono state in passato sentenze della Corte di Cassazione che si sono totalmente contraddette tra loro (ad esempio ricordiamo le conclusioni diametralmente opposte tra Cass. civile, sez. Lavoro, 21-04-1986, n. 2799 e Cass. pen. sez. III pen. 20.6.91 n. 6828 sulla legittimità degli accertamenti sanitari effettuati da un medico competente privato anziché da una struttura pubblica).
Di seguito riportiamo un estratto dall'articolo "Medico competente e Corte di Cassazione" pubblicato su ISL 1/2002 (IPSOA Ed.) che contiene, tra le altre sentenze esaminate, una analisi della sentenza Farabi a cui fa riferimento Guariniello con la speranza di contribuire a chiarire meglio i termini della questione.
Trattasi di una delle prime sentenze giunte in Cassazione e riguardanti specificamente il medico competente come individuato dall'art.17 del D.Lgs. 626/94. Come esporremo più avanti, trattasi di una sentenza che lascia davvero molto perplessi un po' per tutto, dai capi di imputazione fino alle motivazioni della (ovvia) assoluzione del sanitario.
L'imputato, veniva condannato in primo grado ed in appello per avere omesso, in qualità di medico competente, di informare il direttore dello stabilimento ed il lavoratore di avere riscontrato una "dolenzia" al braccio destro di un lavoratore. Tale "dolenzia" venne riferita al medico competente, presente quel giorno in fabbrica per caso, dal lavoratore anch'egli trovatosi casualmente in azienda, in quanto ancora in sospensione disciplinare dal lavoro.
Tra i vari motivi del ricorso presentato dall'imputato, viene indicata la inosservanza ed erronea applicazione degli artt.17 terzo comma e 16 secondo comma del D.Lgs. 626/94 in relazione ai principi di determinatezza della fattispecie penale tutelati dall'art.25 della Costituzione a causa della "estensione, sotto tre differenti profili, della norma incriminatrice ad un caso che non è sanzionato dalla norma stessa".
La prima motivazione sottolinea come il non informare i vertici aziendali ed il lavoratore di una "dolenzia" sia cosa ben diversa dal non informarli di una "inidoneità stessa o inidoneità parziale": Nella seconda motivazione si legge, invece:
In primo luogo è chiaro che si esula dall'ipotesi di reato per il quale il ricorrente è stato condannato, e cioè quella prevista dall'art.17, terzo comma, del D.Lgs. 626/1994. Tale norma, invero, prevede l'obbligo sanzionato penalmente, di informazione per avere riscontrato inidoneità parziale o idoneità parziale al lavoro o alla mansione, solo a seguito degli accertamenti di cui all'art.16, secondo comma, D.Lgs. 626/1994, che sono quelli preventivi e quelli periodici. Vi è quindi una notevole differenza tra le visite richieste dal lavoratore e gli accertamenti preventivi e periodici sulle persone dei lavoratori, come è comprovato dal fatto che solo avverso il giudizio di idoneità di cui all'art.16, secondo comma, D.Lgs. 626/1994, è ammesso ricorso ai sensi del comma successivo, e ciò perché una tale decisione del medico aziendale potrebbe menomare gravemente la posizione del lavoratore.
La difesa, dunque, tra gli argomenti del ricorso, indica come vi sia "notevole differenza tra le visite richieste dal lavoratore e gli accertamenti preventivi e periodici sulle persone dei lavoratori", partendo dall'osservazione che il legislatore ha previsto la possibilità di ricorso solo verso quelle previste dall'articolo 16 comma 2 e non verso quelle previste dall'art.17 comma 1i.
La terza motivazione, infine, indica la non accostabilità di una visita, fatta dal medico competente presente casualmente in azienda ad un lavoratore in sospensione disciplinare, alle visite su richiesta del lavoratore previste dal D.Lgs. 626/94.
Il medico competente viene "assolto dal reato scrittogli perché il fatto contestatogli con la imputazione non è previsto dalla legge come reato".
La prima motivazione della assoluzione, riguardante la mancata comunicazione della dolenzia al datore di lavoro, è ovvia:
Già dal semplice raffronto tra comportamento contestato e reato contestato emerge chiaramente come il primo (art.17 comma terzo n.d.r) non possa in alcun modo essere fatto rientrare nel secondo (art.16 comma secondo n.d.r.), perché il primo riguarda l'omessa informazione del riscontro di una "dolenzia", cioè del riscontro di una sintomatologia di tipo algico immediatamente percettibile dal soggetto che ne è affetto, e quindi non risponde affatto alla fattispecie del reato che consiste nella omessa informazione del riscontro di una inidoneità parziale o temporanea o totale del lavoratore al lavoro, il quale è frutto di una valutazione di tipo tecnico che può essere effettuata soltanto dal medico istituzionalmente preposto a tale giudizio.
La mancata comunicazione "al lavoratore" del riscontro di una dolenzia al braccio del lavoratore stesso viene ovviamente considerata dalla Suprema Corte
manifestamente illogica, perché se la dolenzia, come dice il nome, è un dolore che per sua natura viene riferito dal paziente al medico, non avrebbe alcun senso ravvisare il reato ipotizzato perché il medico non avrebbe a sua volta informato della dolenzia il paziente stesso, quando è quest'ultimo che in primis avverte la spiacevole sensazione e ne dà comunicazione al medico, che altrimenti non potrebbe esserne a conoscenza.
Se dunque un lavoratore dice al medico competente "mi fa male un braccio" e il medico non informa lo stesso lavoratore che "a lui, lavoratore, fa male un braccio", questo non è reato: appare sinceramente incredibile che ci sia voluta la Corte di Cassazione per spiegare questo, dato che i giudici di merito hanno ritenuto questa condotta penalmente rilevante.
A questo punto, la suprema Corte si addentra in una analisi piuttosto contorta sul significato degli accertamenti sanitari: confermando, ovviamente, come "gli accertamenti periodici non devono necessariamente essere soltanto quelli effettuati in date prefissate" potendo essere "effettuati anche in date diverse da quelle programmate, quando il medico competente o il datore di lavoro o il lavoratore stesso ne ravvisino la necessità" sulla base di sopravvenute modificazioni dello stato clinico del lavoratore o anche dei rischi aziendali, giunge a confermare che
una cosa sono gli accertamenti sanitari effettuati ai sensi della'art.16 al fine di formulare il giudizio di idoneità alla mansione specifica ed altra cosa, del tutto differente, sono tutte le altre visite mediche, anch'esse peraltro necessariamente correlate ai rischi professionali, che il medico competente è tenuto ad effettuare su richiesta del lavoratore.
Conclusione sorprendente di tale ragionamento è che il medico competente può
invitare il lavoratore a sottoporsi ad un formale accertamento sanitario periodico ai sensi dell'art.16, onde formulare un giudizio di idoneità totale o parziale o temporanea al lavoro o alla mansione [...] ma non potrà certamente trasformare una visita medica a richiesta del lavoratore ai sensi dell'art.17, lettera i), in un accertamento sanitario ai sensi dell'art.16 e di cui alle lettere b) e c) dello stesso articolo 17.
Dunque, secondo la suprema Corte, se un lavoratore richiede una visita al medico competente ex art.17, il medico al termine di questa visita non può esprimere un giudizio di idoneità in quanto questo sarebbe esprimibile solo dopo le visite preventive e periodiche previste dall'art.16: in pratica il giudizio di idoneità sarebbe esprimibile solo dopo una visita "convocata" dal medico e mai nel corso di una visita richiesta dal lavoratore.
Il motivo di tale motivazione emerge analizzando i presupposti di tale ragionamento:
Del resto, se così non fosse, non solo verrebbe frustrata la ratio della lettera i) dell'art.17, che tende chiaramente a favorire (tanto da renderle obbligatorie per il medico, sanzionandone penalmente l'omissione) le visite richieste dal lavoratore quando siano correlate ai rischi professionali, visite che il lavoratore sarebbe invece palesemente dissuaso qualora da esse potesse senza altri accertamenti ed esami conseguire anche un formale giudizio di idoneità al lavoro con le evidenti conseguenze negative che potrebbero derivargli
tenuto conto come
contro un giudizio di idoneità espresso a seguito di un formale accertamento sanitario ai sensi dell'art.16 è ammesso ricorso da parte del lavoratore, mentre tale ricorso non sarebbe previsto nel caso di giudizio di inidoneità al lavoro formulato nel corso di una visita medica richiesta dal medesimo lavoratore.
Pertanto, il medico competente
effettuò non già un accertamento sanitario di cui all'art.16, diretto alla formulazione di un giudizio sulla idoneità al lavoro, bensì semmai, semplicemente una visita medica richiesta dallo stesso lavoratore
e pertanto la corte giunge alla assoluzione del sanitario perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Tralasciando la accusa di omessa comunicazione da parte del medico al lavoratore della "dolenzia", accusa liquidata anche dalla suprema Corte come ovviamente illogica, va detto che lasciano davvero perplessi molti degli argomenti usati dalla accusa così come quelli della difesa e persino quelli della assoluzione.
Il primo elemento che merita un commento è la comunicazione di una "dolenzia" al medico competente "durante un periodo di sospensione dal lavoro per motivi disciplinari". La difesa lamenta che una visita del genere non può essere assimilabile in alcun modo ad una visita eseguita in ambito D.Lgs. 626/94. Va premesso, a riguardo, come per un datore di lavoro non costituisca reato non far visitare un lavoratore da parte del medico competente in sè, bensì sia reato l'adibirlo ad una mansione senza averlo fatto preventivamente visitare dal sanitario incaricato: il reato si consuma, cioè, nel momento in cui il lavoratore comincia a lavorare senza essere stato preventivamente dichiarato idoneo da un sanitario con i titoli richiesti dalla legge; trattandosi di una violazione di norma di puro pericolo, fino a quando il lavoratore non comincia o non torna a lavorare, pertanto, non vi è reato.
Nel caso in questione il lavoratore non era a lavorare: ma questo è un dettaglio sostanzialmente irrilevante in quanto nulla vieta a un lavoratore di richiedere una visita ex art.17 per informare di un proprio sopravvenuto stato clinico il medico competente in ogni momento (in ferie, in malattia, durante una sospensione disciplinare, etc.) e con qualunque mezzo (personalmente, a mezzo di telefono, fax, e-mail etc.). L'assenza del lavoratore dal lavoro potrà al massimo influenzare il momento in cui il medico potrà cambiare il giudizio di idoneità: nel caso di lavoratore che comunichi al sanitario la propria malattia a guarigione non ancora avvenuta, il medico competente esprimerà il nuovo giudizio di idoneità al momento del rientro al lavoro, cioè quando la malattia si sarà prevedibilmente stabilizzata. In corso di malattia, infatti, ogni accertamento sullo stato di salute da parte del datore di lavoro e, quindi, da parte del medico competente, è possibile solo attraverso strutture pubbliche (in forza dei limiti imposti dall'art.5 dello Statuto dei lavoratori) e, comunque, è palesemente poco sensato esprimere il giudizio di idoneità alla mansione su un lavoratore che non sta lavorando o che non sta per tornare a lavorare.
Venuto a sapere (in qualunque modo) della "dolenzia" del braccio del lavoratore, un medico competente, deve sempre e obbligatoriamente valutare se questo nuovo elemento clinico appreso può comportare una variazione del giudizio di idoneità fino a quel momento espresso: se l'elemento clinico sarà giudicato irrilevante, il medico confermerà (anche implicitamente) il precedente giudizio di idoneità, mentre se tale elemento sarà giudicato rilevante, il medico potrà cambiare il proprio giudizio dandone comunicazione al datore di lavoro o al lavoratore. Se il medico, a seguito di tale visita, non comunica nulla a lavoratore e azienda, è implicito che egli ha ritenuto l'elemento ininfluente ai fini del cambiamento di giudizio di idoneità: in tutti i casi, comunque, quello che deve essere comunicato al datore di lavoro e al lavoratore, resta solo il giudizio di idoneità e giammai la dolenzia o qualunque altro elemento clinico, in quanto qualunque notizia medica rilevata in sede di qualsivoglia visita fatta dal medico competente è inderogabilmente coperta da segreto medico in forza degli art.622 c.p. e art.17 comma 1d del D.Lgs. 626/94. Abbastanza incredibile appare, pertanto, come né gli avvocati né i giudici rilevino come il medico competente non solo non fosse in alcun modo obbligato a comunicare la "dolenzia" al datore di lavoro, ma "neppure avrebbe potuto", pena la violazione del "segreto professionale".
Ma la parte della sentenza che lascia maggiormente perplessi è la interpretazione delle visite previste dalla'art.16 comma 2 del D.Lgs 626/94 come "del tutto differenti" da quelle previste dall'art.17 comma 1i dello stesso D. Lgs 626/94. Conclusione davvero sorprendente è quindi che il medico competente "non potrà certamente trasformare una visita medica a richiesta del lavoratore ai sensi dell'art.17, lettera i), in un accertamento sanitario ai sensi dell'art.16 e di cui alle lettere b) e c) dello stesso articolo 17".
Può essere posto l'esempio di un medico competente che effettua visite periodiche in una catena di montaggio con una frequenza annuale e che esegua tali visite a maggio di ogni anno: se, ad esempio a giugno un lavoratore avverte una forte "dolenzia" ad un braccio (supponiamo perché caduto in motorino), non potrà certamente aspettare il maggio dell'anno dopo per comunicare al medico competente che, a causa dei postumi del trauma, egli non riesce più stringere i bulloni, e dovrà dunque richiedere solertemente una visita medica ex art.17 comma 1i. Verificato e confermato che il sopravvenuto stato clinico del lavoratore non consente più al lavoratore di svolgere i compiti della attuale mansione, il medico competente dovrà riformulare il giudizio di idoneità certificandone la non idoneità al montaggio o la idoneità a condizione che non stringa più i bulloni (idoneità con prescrizione).
In questo caso, a seguito di richiesta di visita ex art.17 comma 1d, il medico competente avrà, quindi, espresso un giudizio di idoneità ex art.16: avrà, cioè, trasformato "una visita medica a richiesta del lavoratore ai sensi dell'art.17, lettera i), in un accertamento sanitario ai sensi dell'art. 16 e di cui alle lettere b) e c) dello stesso articolo 17". Ricevuta la comunicazione del nuovo giudizio di idoneità, il lavoratore potrà, se lo ritiene necessario, fare ricorso all'organo di vigilanza territorialmente competente. Questa situazione rappresenta un evento che si ripete migliaia di volte nelle aziende italiane tutti i giorni: la separazione concettuale tra visite ex art.16 e art.17 rappresenta, pertanto, una interpretazione in nessun modo condivisibile. Il significato dell'art.17 comma 1i voluto dal legislatore, infatti, non può che essere (semplicemente) quello di garantire al lavoratore l'opportunità di sollecitare l'intervento del medico competente ogni volta che, per sopravvenute situazioni cliniche, egli ritenga che il proprio giudizio di idoneità debba essere rivalutato: al comma 1i dell'art.17 ("fatti salvi i controlli sanitari di cui alla lettera b), effettua le visite mediche richieste dal lavoratore qualora tale richiesta sia correlata ai rischi professionali") il legislatore ha, tra l'altro, precisato come le visite su richiesta debbano essere correlate ai rischi; questo proprio per evitare che il medico competente possa essere interpellato per motivi che nulla hanno a che fare con l'unico scopo proprio mandato, e cioè la formulazione dei giudizi di idoneità.
Su un piano dottrinale se l'art.2087 impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica in base alla "particolarità dell'azienda", le prescrizioni del medico competente, in conformità con i precetti di tale articolo, obbligano per il datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica in base alla "particolarità del lavoratore". Come ampiamente consolidato in dottrina, dall'art.2087 c.c. deriva l'obbligo per il datore di lavoro di attivarsi per la tutela del lavoratore di fronte ad ogni "pericoloso conoscibile": dunque, anche la comunicazione di un sopravvenuto stato clinico da parte del lavoratore, nota bene in qualunque modo e tempo tale comunicazione avvenga, fa scattare l'obbligo per il datore di lavoro di attivarsi per scegliere le misure di sicurezza più idonee; il cambiamento di stato clinico, infatti, potrebbe far sì che il lavoratore, mantenuto al suo posto di lavoro, possa subire un peggioramento clinico. In questo caso, trattandosi di notizie coperte da segreto medico, le sopravvenute variazioni cliniche devono essere comunicate dal lavoratore direttamente al medico competente. Il medico competente, va rimarcato, non & egrave;, quindi, una figura estranea ai precetti dell'art.2087 c.c., bens& igrave; la figura che riceve con delega di responsabilità la gestione del "rischio residuo" di malattie professionali: non potendo il datore di lavoro, per ovvie ragioni, visitare i propri dipendenti, egli & egrave; tenuto a delegare tale compito al medico competente. Limitatamente all'ambito clinico, dunque, il medico competente riceve in delega i precetti dell' art.2087 c.c. propri del datore di lavoro ed è, pertanto, tenuto ad attivarsi in presenza di ogni elemento di pericolo per i lavoratori " conoscibile", cioè di ogni pericolo che il sanitario "non poteva non sapere" (principio di non acquiescenza). In qualunque modo ed in qualunque momento egli venga a conoscenza di elementi che potrebbero comportare rischio per la salute del lavoratore, egli è tenuto a valutare tempestivamente se tali notizie possono rendere necessaria una riformulazione del giudizio di idoneità. Il medico competente, pertanto, non solo può trasformare una visita su richiesta del lavoratore (ex art. 17 comma 1i), se questa è correlata ai rischi professionali specifici per il lavoratore, in una visita mirata alla formulazione del giudizio di idoneità, ma è addirittura obbligato a fare ciò: di fronte alla comunicazione anche di una semplice "dolenzia", il medico è tenuto ad attivarsi in vece del datore di lavoro e ad indicare prontamente a questi tutte le misure necessarie a tutelare la salute del lavoratore per mezzo delle "prescrizioni".
D'altronde, se fosse applicata la interpretazione della Corte di Cassazione, sarebbe davvero difficile capire a cosa servirebbero le visite su richiesta previste dal comma 1i dell'art.17, se si tiene presente come l'art.5 dello statuto dei lavoratori vieti visite da parte di medici privati, quale è il medico competente, non mirate all'accertamento della specifica idoneità al lavoro in relazione ai rischi professionali: una volta che il lavoratore ha comunicato in una visita "a richiesta" al medico competente la dolenzia al braccio, che senso avrebbe questa visita tenuto conto di come il medico competente rivesta il rigorosamente "limitato" scopo di formulare giudizi di idoneità e di cooperare con il datore di lavoro nella individuazione delle misure a tutela dei lavoratori?
Ma la parte della sentenza che lascia più perplessi è il passaggio in cui si afferma che "il lavoratore sarebbe invece palesemente dissuaso" dal richiedere una visita al medico competente qualora "da esse potesse senza altri accertamenti ed esami conseguire anche un formale giudizio di idoneit& agrave; al lavoro con le evidenti conseguenze negative che potrebbero derivargli".
Dunque il lavoratore, di fronte ad un cambiamento del proprio stato clinico, può valutare la opportunità di comunicare tale stato al medico competente? E nel caso in cui a seguito di tale mancata comunicazione, il lavoratore dovesse peggiorare clinicamente, il medico competente potrebbe rispondere di lesioni personali ex art.590 c.p. pur se non messo nella condizione di avere tutti gli elementi necessari per formulare un corretto giudizio di idoneità? E quali sarebbero queste " conseguenze negative" che potrebbero derivargli da un giudizio di idoneit& agrave; "formale"?
La salute è un bene indisponibile in quanto protetto dalla Costituzione quale diritto individuale ma anche interesse della collettività (art.32): nessuno ha il "diritto di ammalarsi", per cui il lavoratore ha l'obbligo, più volte richiamato anche dal D.Lgs 626/94, di cooperare con le altre figure aziendali per la tutela della propria ed altrui salute.
Un giudizio di idoneità rappresenta una misura di igiene del lavoro indispensabile esattamente quanto un aspiratore o un DPI: esattamente come un lavoratore non può in alcun modo decidere se usare o meno una maschera o una cintura di sicurezza, egli non può in alcun modo valutare se gli conviene "dire tutto" riguardo il proprio stato e passato clinico al medico competente.
Affinchè un giudizio di idoneità possa svolgere compiutamente il proprio ruolo di tutela della salute del lavoratore, è ovvio che il medico deve ricevere dal lavoratore tutte le informazioni possibili: nel momento in cui si concedesse al lavoratore il diritto di "valutare" quali notizie gli conviene comunicare e quali no al medico competente, si verificherebbe una grave ingerenza nell'operato del sanitario il quale non potrebbe più rispondere di lesioni personali gravi per errato giudizio di idoneità. Se si ammettesse, infatti, il diritto del lavoratore di valutare "quanto" collaborare con il medico competente a seconda del proprio tornaconto, si dovrebbe allora giocoforza postulare come la salute non sia un diritto indisponibile per il lavoratore e che il lavoratore potrebbe anche "scambiarla" in ogni momento con qualche altro vantaggio. Tutto questo è contrario ai più consolidati principi del diritto della sicurezza sul lavoro e della Costituzione: tra gli obblighi del lavoratore di partecipare alla sicurezza propria e altrui, spicca quello di comunicare sempre e prontamente ogni cambiamento del proprio stato fisico al medico competente in modo che quest'ultimo possa tempestivamente formulare un giudizio di idoneità realmente tutelante la salute del lavoratore.
In conclusione ci appare evidente come il medico competente andasse assolto per il semplice fatto che mai avrebbe potuto comunicare la dolenzia al datore di lavoro in quanto elemento medico coperto da segreto professionale e in quanto vi sarebbe stato obbligo di comunicazione al lavoratore ed al datore di lavoro solo nel momento in cui avesse formulato un giudizio di idoneità con prescrizione o di non idoneità, cosa che non è mai avvenuta; tutte le altre motivazioni appaiono davvero discutibili.
Tale sentenza, nelle pur sue discutibili argomentazioni, ha però il merito di mettere in evidenza una imperfezione del legislatore nella formulazione degli artt.16 e 17 del D.Lgs 626/94: sarebbe pertanto auspicabile una correzione dell'art.16 comma 2 aggiungendo che il medico competente effettua, oltre ai già indicati accertamenti preventivi e periodici, anche "visite mediche richieste dal lavoratore qualora tale richiesta sia correlata ai rischi professionali".
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