Con una recente sentenza (Cass. civile sez. lavoro, n. 85 dell'8 gennaio 2003) la Corte di Cassazione ha affrontato il problema della sicurezza sul lavoro delle società sportive professionistiche verso i propri tesserati in una luce sostanzialmente nuova: dal ragionamento giuridico della Suprema Corte emerge una chiarissima interpretazione dei doveri di sicurezza delle società professionistiche verso i propri giocatori del tutto sovrapponibili a quelli gravanti su qualunque altro imprenditore. La conseguenza obbligata di tale impostazione è la esplicita attribuzione al ruolo dei medici sportivi societari di un ruolo praticamente sovrapponibile a quello dei medici competenti aziendali.
Con ricorso al Pretore del lavoro di Novara, F. R. conveniva in giudizio la società calcio professionistica esponendo di avere svolto, fino, al 30 giugno 1989, attività di calciatore professionista alle dipendenze di suddetta società. In data 10 febbraio 1989 la società calcistica aveva chiesto alla Lega professionisti di serie C la risoluzione del contratto a seguito della invalidità derivata ad esso ricorrente da un infortunio subito nel corso di una partita di allenamento in data 25 luglio 1988 e la Lega aveva concesso la risoluzione del contratto per accertata "inabilità" al gioco del calcio.
Aggiungeva il ricorrente che prima dell'ultimo infortunio nel corso di una partita di calcio all'inizio del 1988, aveva subito la frattura del V metatarso destro. Dopo avere ripreso l'attività sportiva, il 7 marzo 1988 durante un allenamento aveva riportato una frattura allo stesso punto per cui era stato ricoverato all'Ospedale Gradenigo di Torino ed operato di osteosintesi con inserimento di una vite metallica, poi estratta nel luglio 1988; la rimozione non era stata completa tanto che era rimasta una rondella sotto la cute. Dopo la convocazione per un "ritiro" dal 22 al 30 luglio 1988 aveva, infine, subito la terza frattura del metatarso, dalla quale era derivata la sua totale inabilità al gioco del calcio nonchè una inabilità permanente del 12%.
Dopo la costituzione della s.p.a. (omissis) e dopo che era stata disposta la separazione della causa promossa nei riguardi di quest'ultima società con rimessione al Tribunale competente, il Pretore di Novara rigettava il ricorso del calciatore. A seguito dell'appello della parte soccombente, il Tribunale di Novara, dopo l'espletamento di una consulenza richiesta dal calciatore, con sentenza del 31 gennaio 2000, in riforma dell'impugnata sentenza, dichiarava la [...] (omissis) s.p.a. responsabile dell'infortunio subito dal R. e conseguentemente condannava la società di calcio al risarcimento dei danni liquidati in lire 300.000.000.
Nel pervenire a tale soluzione il Tribunale osservava in punto di fatto che non poteva dubitarsi, in base alle risultanze della consulenza espletata, che parte attrice era stato costretto ad abbandonare l'attività agonistica per le ripetute fratture riportate alla caviglia ed in particolare per l'infortunio subito il 25 luglio 1998. Le due prime fratture però non avevano da sole determinato l'inidoneità allo svolgimento della attività calcistica ma avevano solo determinato i presupposti per il verificarsi della terza e decisiva lesione. L'irrilevanza dei primi infortuni sul piano causale non si traduceva però in una completa irrilevanza sul versante oggettivo in quanto il verificarsi dei precedenti episodi lesivi e la conoscenza degli stessi influivano notevolmente sulla prevedibilità e sulla evitabilità dell'ultima frattura sicchè assumevano importanza ai fini decisori anche i rapporti tra la società (omissis) per il cui sodalizio parte attrice aveva spiegato la sua attività prima dell'ultimo infortunio, essendo stato oggetto di "prestito" da parte del sodalizio novarese. E che il (omissis) fosse a conoscenza degli infortuni subiti da parte attrice, durante il periodo in cui aveva giocato nella (omissis), si evinceva con certezza dalle dichiarazioni rese dal dott. A., medico della società calcistica, e dal suo direttore sportivo, sig. R. B..
Nè per assolvere la s.p.a. (omissis) da ogni responsabilità al riguardo poteva valere la certificazione di idoneità all'attività sportiva agonistica rilasciata dall'Istituto di Medicina dello Sport di Torino. Tale certificazione era il risultato di un marchiano errore professionale dovuto a grave negligenza in quanto all'atto della visita non era stata accertata la presenza di un mezzo di sintesi nel piede destro nè erano state rilevate le cicatrici conseguenti all'intervento chirurgico cui parte attrice era stato sottoposto poco tempo prima.
La responsabilità dell'Istituto di Medicina dello Sport non comportava di certo la liberazione della società (omissis) dall'obbligazione su di essa incombente ex art. 2087 c.c. Ed invero la verifica delle condizioni fisiche del giocatore professionista deve essere in via continuativa operata dai sanitari della società di calcio di appartenenza. L'attività agonistica implica, infatti, un impegno fisico ed una esposizione agli infortuni che richiedono un controllo costante al fine di prevenire incidenti dovuti allo svolgimento dell'attività sportiva, che costituisce la prestazione professionale del giocatore anche quando non si esplica in partite o gare ma in sedute di allenamento. Per di più nel caso di specie la s.p.a. (omissis) avrebbe dovuto mettere l'Istituto di Medicina dello Sport nelle condizioni di valutare con piena cognizione la situazione del R. ponendo a sua disposizione la documentazione relativa alle fratture ed agli infortuni già subiti da giocatore. Ed ancora, il sodalizio sportivo avrebbe dovuto sottoporre i calciatori a visite mediche anche all'inizio del ritiro pre-campionato onde avere un controllo aggiornato al momento in cui effettivamente riprendeva l'attività agonistica.
Il primo elemento che risalta nella sentenza è come il profilo di colpa individuato dal Tribunale di Novara, e confermato dalla Cassazione, sia basato sui disposti dell'art.2087 c.c. (parte attrice aveva indicato come fonte anche l'art.2043 c.c., cioè una responsabilità aquiliana). Si sottolinea come l'accertamento di un tale profilo di colpa presupponga necessariamente l'interpretazione del contratto di lavoro dei calciatori professionisti quale rapporto lavorativo con vincolo di "subordinazione".
L'altro punto basilare è la messa in rilievo di come "le due prime fratture [...] non avevano da sole determinato l'inidoneità allo svolgimento della attività calcistica, ma avevano solo determinato i presupposti per il verificarsi della terza e decisiva lesione [...] in quanto il verificarsi dei precedenti episodi lesivi e la conoscenza degli stessi influivano notevolmente sulla prevedibilità e sulla evitabilità dell'ultima frattura".
Dunque, nel ragionamento del Tribunale di Novara, la società essendo a conoscenza delle precedenti fratture del giocatore e quindi della sua sopravvenuta vulnerabilità fisica, non avrebbe adottato "tutte le misure necessarie" per tutelare l'integrità psico-fisica del giocatore nonostante la "prevedibilità" dell'evento: tale ragionamento sottintende come la colpa della società consista nell'avere fatto allenare o giocare un calciatore-lavoratore (temporaneamente) "non idoneo alla mansione" specifica.
Un profilo di colpa per omissione delle misure di tutela generale sulla sicurezza sul lavoro sanciti per l'imprenditore dall'art.2087 c.c. e individuabile fondamentalmente in un "mancato preventivo accertamento della idoneità del lavoratore-calciatore" a mezzo di sanitari competenti di propria fiducia, però, pone di fatto società calcistica e il proprio medico sportivo nella stessa identica posizione giuridica "di garanzia" del datore di lavoro e del medico competente delle aziende (tra le più esplicite nell'enunciare tale obbligo ex art. 2087 c.c. di verificare preventivamente l'idoneità dei lavoratori alla mansione, vedi Cass. sez. lav. 21 gennaio 2002, n. 572).
Del resto il D.M. 15 marzo 1995 stabilisce che l'esercizio dell'attività sportiva professionistica è subordinata al possesso del "certificato di idoneità", che accompagna l'atleta per l'intera durata della sua attività sportiva (art. 1, comma 2 e 3) e che il medico sociale, "responsabile sanitario della società sportiva professionistica"(art. 6), è tenuto alla effettuazione periodica dei controlli ed accertamenti clinici previsti ed ad ogni altro ulteriore accertamento che egli ritenga opportuno, oltre che "alla verifica costante dello stato di salute dell'atleta e dell'esistenza di eventuali controindicazioni, anche temporanee alla pratica dell'attività professionale" (art. 7, comma 2); infine lo stesso professionista è anche obbligato alla custodia personale della cartella clinica "per l'intero periodo del rapporto di lavoro tra l'atleta e la società sportiva, con il vincolo del segreto personale e nel rispetto di ogni altra disposizione di legge" (art. 7, comma 3).
Nel merito, è da segnalare come la società si sia difesa asserendo che il calciatore era stato curato ed assistito sino al luglio 1988 da soggetti estranei alla società ricorrente e nessuno di tali soggetti aveva evidenziato che il calciatore non era idoneo all'attività sportiva e che, dunque, non poteva giocare, ed inoltre era stata rilasciata regolare certificazione di idoneità all'attività sportiva agonistica da parte dell'Istituto di Medicina dello Sport di Torino, uno degli Istituti deputati ai sensi dell'art. 5 del D.M. 18 febbraio 1982 al rilascio del certificato di idoneità all'Attività sportiva Agonistica, riconosciuto dal CONI-FMSI (la visita era stata effettuata il 14 luglio del 1988 ed il ritiro dei giocatori era iniziato il 22 luglio, dopo che si era appreso, quindi, da un istituto altamente qualificato che parte attrice era un giocatore idoneo alla attività agonistica).
La Corte di Cassazione fa però notare come tale certificazione fosse viziata da un marchiano errore professionale dovuto a grave negligenza in quanto all'atto della visita non era stata accertata la presenza di un mezzo di sintesi nel piede destro nè erano state rilevate le cicatrici conseguenti all'intervento chirurgico cui parte attrice era stato sottoposto poco tempo prima.
L'errore del medico dell'Istituto di Medicina dello Sport, a logica ed in diritto, dovrebbe integrare caso di colpa professionale in grado di esonerare la società calcistica da proprie responsabilità (indotta, in tal senso, ad un errore "inevitabile"), ma il Tribunale di Novara contesta "al sodalizio sportivo di non avere messo l'Istituto di Medicina dello Sport di Torino in condizione di conoscere la vera e travagliata storia clinica del R. al fine di pervenire ad accertamenti più completi ed esaurienti di quelli in realtà svolti".
Su questo punto le motivazioni non appaiono chiarissime in quanto il sanitario dell'Istituto Torinese avrebbe potuto, in sede di anamnesi, chiedere comunque ed autonomamente al calciatore se aveva riportato recenti fratture o interventi chirurgici e comunque avrebbe potuto facilmente rilevare le cicatrici in sede di visita; in alternativa, poi, potrebbe benissimo essersi verificata l'ipotesi che il calciatore abbia dolosamente omesso di raccontare tutto al sanitario, il che rappresenterebbe una condotta tale da potere indurre il sanitario in errore.
La Corte di Cassazione, con questa sentenza, delinea, di fatto ed in maniera piuttosto inequivocabile, la figura del medico sportivo quale medico competente delle società sportive.
In termini giuridici, infatti, compaiono tutti i presupposti della sorveglianza sanitaria da parte del medico competente: obblighi generali e sussidiari di sicurezza dell'art.2087 c.c., previsione legislativa specifica di sorveglianza sanitaria (D.M. 15 marzo 1995), mancato accertamento della idoneità quale profilo di colpa specifica e addirittura l'obbligo di valutazione dei rischi specifici (in sentenza si legge
A tale riguardo non può mancarsi di osservare che ogni disciplina sportiva che, come il calcio, rende frequente lo scontro fisico tra contendenti e che per il suo accentuato agonismo porta non di rado alla consumazione di falli di gioco improntati a condotte violente, giustifica una ampia operatività nel settore in oggetto del citato art. 2087 c.c., dovendosi le cautele a tutela della salute - cui è tenuto il datore di lavoro - parametrare sulla specifica pericolosità dell'attività svolta dallo sportivo professionista, che deve essere controllato e seguito a livello medico con continuità ed anche nel momento in cui, in sede di sedute di allenamento e di ritiro precampionato, svolge la propria attività, avendo la realtà fattuale mostrato come interventi solleciti siano serviti ad impedire la consumazione di eventi lesivi di particolare gravità ed, in qualche occasione, ad evitare sinanche la morte.
Unico elemento che non viene menzionato è il segreto professionale a cui, anche il medico sportivo societario, apparirebbe, comunque, tenuto.
È una sentenza che nella sostanza non presenta il fianco a particolari critiche ma che potrebbe aprire scenari problematici, soprattutto per le società sportive non professionistiche: come già ampiamente chiarito dalla suprema Corte, infatti, l'art.2087 c.c. si applica in tutti i casi di subordinazione, anche solo di fatto e a prescindere da retribuzioni monetarie (tra le numerose, Cass. sez. IV pen. 14.1.89 n. 267, Ric. P.M. in C. Andrini; Cass. pen. sez. IV 20.12.96, Fabbrolini): per l'applicazione dei disposti di questo articolo, cioè, non è necessaria la esistenza di lavoratori dipendenti o di un compenso monetario.
Sarebbe, pertanto, senza dubbio meritevole di approfondimento se, nel caso di società professionistiche, il carattere di subordinazione del rapporto calciatore-società sportiva sia desumibile esclusivamente dalle modalità di retribuzione o se sia già desumibile dalle stesse intrinseche modalità di lavoro (nella sostanza dalla eterodirezione nello svolgimento dell'attività sportiva ed agonistica). In questa seconda ipotesi, infatti, ogni società sportiva, anche dilettantistica e persino giovanile, rientrerebbe nei precetti dell'art.2087 c.c. e, conseguentemente, all'interno del D.Lgs. 626/94, con tutte le conseguenza immaginabili.
Da notare il passaggio in cui si legge "la verifica delle condizioni fisiche del giocatore professionista deve essere in via continuativa operata dai sanitari della società di calcio di appartenenza". Dunque la Cassazione, come del resto da questa spiegato da anni, non ritiene in alcun modo violato l'art.5 dello Statuto dei lavoratori nel momento in cui medici privati accertino l'idoneità dei calciatori professionisti anche per rischi non tabellati (quali sono i rischi specifici degli atleti professionisti: sforzi muscolari, micro e macrotraumi da attività agonistica), pur essendo tale articolo perfettamente vigente anche per gli sportivi professionisti (l'art.2087 c.c., vigente in tutti casi di lavoro subordinato, trova completa applicazione in tutti i casi in cui si applica l'art.5 dello Statuto dei Lavoratori).
Da notare, infine, la commuovente affermazione in cui la Suprema Corte definisce lo sport agonistico come "diretto a fare dello sport un sicuro strumento di perseguimento della salute di coloro che lo praticano", affermazione che appare decisamente naif se si tiene conto della realtà attuale dello sport professionistico, caratterizzato da ingaggi stratosferici, esasperata ricerca della vittoria, diffusa pratica di doping e da un giro miliardario di sponsorizzazioni spesso con non troppi scrupoli.
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