Con la sentenza n.2117 del 23 gennaio 2004 la III sezione della Corte di Cassazione torna ad affrontare il problema delle cartelle sanitarie redatte dal Medico Competente ai sensi dell'art.17 del D.Lgs. 626/94.
Nel caso di specie, un Medico Competente veniva rinviato a giudizio per il reato previsto dall'art. 17, comma 1, lettera d), D.Lgs. n. 626/1994, in quanto nella cartella sanitaria e di rischio di un dipendente "non erano elencati i fattori di rischio cui era esposto durante la propria attività lavorativa (e cioè l'acido cloridrico, i residui e derivati di oli minerali esausti, i solventi contenenti glicoli)".
Il giudizio di primo grado si concludeva con l'assoluzione totale del sanitario: tra le motivazioni si legge come
ancora forte è l'incertezza in ordine alle modalità di compilazione ed alla necessità di inserire i fattori di rischio o di esposizione all'interno della cartella sanitaria. A tal fine appare particolarmente interessante la produzione difensiva delle cartelle sanitarie e di rischio utilizzate da grandi aziende, che non riportano elenchi di fattori di rischio. Non esiste, quindi, allo stato della normativa vigente un modello di cartella sanitaria e di rischio cui far riferimento.
[...]
Inoltre, vale la pena ricordare che anche in quelle rare ipotesi in cui il legislatore si è preoccupato di disciplinare la struttura di cartelle sanitarie per alcune categorie di lavoratori esposti a rischi particolari (vedi, ad esempio, il D.P.R. n. 1124/1965 per lavoratori esposti ad asbesto o silice), non ha prescritto annotazioni relative alla trascrizione ed all'entità di esposizione a fattori di rischio, ma solo al tipo di accertamenti da effettuare ed agli organi che devono essere maggiormente controllati.
(Trib. Viareggio 18 gennaio 2002, est. Boragine, inedita).
Le sorprese cominciano però in appello a Firenze: la sentenza viene ribaltata ed il sanitario viene condannato. Nel nocciolo della motivazione si legge come
è evidente, dal tenore letterale della norma che prevede l'istituzione della cartella, che in tanto la medesima può assolvere ad una qualche funzione, in quanto rechi quel contenuto informativo valido e sufficiente a tutelare la salute del lavoratore. È fuorviante sostenere che non vi sia una disposizione ad hoc che stabilisca quale sia il contenuto minimo o necessario della cartella in questione, posto che deve ritenersi sufficiente ad integrare il reato contestato l'individuare un'omissione di un dato rilevante per la salute del soggetto (soprattutto in vista di una sempre possibile messa in mobilità del lavoratore) quale la sottoposizione ad ambiente nocivo o a connotazione di rischio che renda di scarsa o nulla efficacia la cartella clinica de qua.
Avvalora questa convinzione il considerare che la qualità di documento esterno della cartella diversamente dal documento di valutazione del rischio (atto interno all'azienda) rimane nelle mani del lavoratore. Il distinto impiego dei due atti non deve far allora indebitamente ritenere che gli stessi assolvano a due finalità di legge contrapposte, nè far trarre la convinzione che la cartella debba avere un contenuto necessariamente diverso (o minore) di quello recato dal documento citato. Del resto la cartella sanitaria, perchè la stessa conservi un senso, non deve riportare tutti i fattori di rischio della ditta, ma solo quelli specificatamente sopportati da quel dato lavoratore.
È del tutto ininfluente che vi siano a valle del rischio enti ed organismi preposti alla verifica di responsabilità sanitarie o giuridiche; quel che rileva infatti è che, a monte, vi sia invece un potere accertativo e certificativo del medico competente, di colui cioè che più è a contatto con il lavoratore e con la azienda nella quale il lavoratore è inserito, di monitorare il suo stato di salute in dipendenza del tipo di attività eventualmente insalubre da lui svolto.
Il nocciolo della sentenza, che ribalta la motivazione del giudice di primo grado, è rappresentato dalla affermazione
[...] è fuorviante sostenere che non vi sia una disposizione ad hoc che stabilisca quale sia il contenuto minimo o necessario della cartella in questione posto che deve ritenersi sufficiente ad integrare il reato contestato l'individuare un'omissione di un dato rilevante per la salute del soggetto (soprattutto in vista di una sempre possibile messa in mobilità del lavoratore) quale la sottoposizione ad ambiente nocivo o a connotazione di rischio che renda di scarsa o nulla efficacia la cartella clinica de qua.
Il principio giuridico sotteso dal ragionamento dei giudici è ovviamente quello di "tassatività della azione penale":
in tema di colpa specifica, ad integrare la colpa medesima basta l'inosservanza della regola cautelare imposta dalla legge, regolamento, ordine e disciplina purchè, beninteso, l'evento verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che tale regola intende prevenire, per cui non vale invocare la mancanza del requisito della prevedibilità, essendo questa insita nello stesso precetto normativo violato, nel senso che è stato l'autore di questo a prefigurarsi una volta per tutte la pericolosità di una certa situazione, tanto da dettare precise regole precauzionali per ovviarvi.
Dunque, se il legislatore valuta una condotta o misura come necessaria a tutelare la salute indicandola in una legge penale quale norma di puro pericolo, già la semplice violazione di questa determina la sanzionabilità della condotta omissiva,
e al giudice non è consentito di dispensarlo da alcuna di esse, ripetendo l'indagine sulla loro necessità, che è stata già accertata a priori dal legislatore.
In conformità a questo principio la Corte di Appello, pertanto, afferma
che in tanto la medesima può assolvere ad una qualche funzione, in quanto rechi quel contenuto informativo valido e sufficiente a tutelare la salute del lavoratore
e questo è sufficiente ad integrare un omissione di un obbligo di prevenzione della salute del lavoratore autonomamente sanzionabile, anche in assenza del verificarsi dell'evento (malattia professionale) che la norma mira a prevenire.
Il caso in questione riguarda proprio la violazione di una norma di puro pericolo (art.17 comma 1d) e dunque è indiscutibile la autonoma sanzionabilità di questa omissione indipendentemente dal verificarsi degli eventi che la norma intende prevenire.
Ma qui emerge un problema di diritto penale: l'art.25 della Costituzione tutela uno dei principi giuridici più importanti del nostro ordinamento, e cioè il principio di "determinatezza della fattispecie penale": nessuno può essere condannato se non per una condotta esplicitamente e chiaramente indicata dalla legge come reato. Tale principio, noto anche come "principio di legalità" e che risale addirittura alla Magna Charta inglese, mira proprio ad impedire che l'autorità giudiziaria possa "interpretare" il precetto penale e ad evitare che il cittadino possa rimanere in balia di valutazioni soggettive del giudice. In pratica, il cittadino deve sempre potere chiaramente conoscere ciò che costituisce un reato e ciò che non lo rappresenta: nel dubbio, la interpretazione è sempre favorevole all'imputato.
L'art.17 indica solo l'obbligo di redigere una "cartella sanitaria e di rischio", mentre al Medico Competente viene contestato esplicitamente di "non avere riportato per iscritto i rischi specifici a cui il lavoratore era sottoposto": a livello penale, la discrepanza non è trascurabile.
D'altronde la stessa Corte di Appello si dimostra ben consapevole di questo problema: in questo senso, è sufficiente leggere il testo per rendersi conto di come i giudici non riescano in alcun modo ad affermare che la legge indichi chiaramente l'obbligo di trascrivere i rischi sulla cartella, ma siano costretti ad affermare testualmente solo la propria "convinzione" che la qualità di "documento esterno" della cartella sanitaria e di rischio postuli la necessità di trascrivere i rischi professionali del lavoratore. Il Medico Competente viene dunque condannato non perché il giudice è ragionevolmente convinto che questi abbia commesso un reato, ma solo perché la corte è "convinta che la legge vada interpretata in un certo modo": dunque la Corte di Appello nel motivare la condanna finisce col motivare non la validità delle prove ma solo la propria "interpretazione" di una norma di legge e questo sinceramente, a giudizio di chi scrive, non appare molto conciliabile con il principio di determinatezza della fattispecie penale.
D'altronde è difficile capire, se la volontà del legislatore fosse quella interpretata dalla Corte di Appello, cosa possa impedirebbe allora al legislatore di scrivere semplicemente nel testo di legge "cartella in cui siano annotati i rischi": per analogia, è sufficiente rilevare, a riguardo, come all'art.4, il D.Lgs. 626/94 non si limiti a pretendere un documento di valutazione "di rischi", ma indichi esplicitamente come tale documento debba contenere
Dunque, quando al legislatore interessa che sia indicato per iscritto qualcosa, non esita a richiedere indicazioni anche più dettagliate di quelle contestate al Medico Competente in questo processo.
Ma c'è di più: non va dimenticato come il legislatore non pretenda la forma "scritta" neppure nel caso della formulazione del giudizio di idoneità (la forma scritta è obbligatoria solo nel caso di idoneità con prescrizioni o di non idoneità), cioè proprio nella parte della cartella sanitaria che maggiormente dovrebbe "tutelare" la salute del lavoratore; e anche in questo caso, è evidente come dove ritenga necessaria la forma scritta, il legislatore non esiti a indicarlo chiaramente ed esplicitamente nel testo di legge.
Il secondo elemento critico da rilevare nella argomentazione della Corte di appello a sostegno della propria "convinzione" è il carattere di "documento esterno" della cartella: il carattere "esterno" viene (giustamente) ricavato dal fatto che la cartella sanitaria di rischio "rimane nelle mani del lavoratore"; pertanto "perchè la stessa conservi un senso, non deve riportare tutti i fattori di rischio della ditta, ma solo quelli specificatamente sopportati da quel dato lavoratore".
A questo la Corte di Cassazione aggiunge come la cartella sanitaria e di rischio non può
essere incompleta in quanto l'interessato deve entrare in possesso di una documentazione sanitaria esaustiva che attesti i rischi lavorativi ai quali è stato esposto al fine di controllarne le possibili negative ricadute anche sul lungo termine.
Sia che si affronti il problema da un punto di vista della efficacia interna che da quello dell'efficacia esterna della cartella sanitaria, il problema non cambia: quando è possibile affermare che le informazioni contenute nella cartella sono realmente "esaustive"?
Se si scrive semplicemente "acido cloridrico", come pretendeva la Corte di appello, la cartella conterrà allora, come dicono i giudici, "un dato rilevante per la salute del soggetto" e quindi la cartella sarà "esaustivamente" tutelante la salute del lavoratore?
Sinceramente, vista con gli occhi di Medico del Lavoro, la cosa appare perlomeno discutibile: scrivendo semplicemente "acido cloridrico, residui e derivati di oli minerali esausti, solventi contenenti glicoli", ma senza scrivere se queste sostanze vengono inalate o toccate, se la concentrazione è sotto il TLV o no, se la sostanza è lavorata diluita o concentrata, se l'esposizione è continuata o occasionale, se il lavoratore utilizza magari una autorespiratore a ciclo chiuso o DPI, etc., non si scrive fondamentalmente niente sul reale rischio a cui il lavoratore è esposto. Questo sia in un'ottica di futuro riconoscimento di malattia professionale, sia in un'ottica di misure di prevenzione.
Del resto, applicando, come doveroso in tema di reati omissivi di norme antinfortunistiche, il classico ragionamento controfattuale, è difficile potere affermare che lo "scrivere" sulla cartella acido cloridrico potrebbe rappresentare misura prevenzionistica in grado di prevenire, ritardare o diminuire di gravità l'insorgenza della patologia professionale con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica", "oltre ogni ragionevole dubbio (Cass. sez. unite sentenza 11 settembre 2002 n. 30328, Franzese).
La conclusione obbligata, pertanto, è che affinché la cartella sia "esaustivamente" sanitaria e di rischio, deve allora contenere obbligatoriamente ed in modo integrale tutta la parte del documento di valutazione di rischio ex art.4 D.Lgs. 626/94 che si riferisce alle malattie professionali: quello che viene preteso dai giudici in questa sentenza (il semplice scrivere sulla cartella acido cloridrico, glicoli etc.) si risolve, quindi, inevitabilmente col diventare in un irrilevante surrogato di valutazione dei rischi fine a sé stesso. Trascrivendo, invece, in maniera seria tutta la valutazione dei rischi, ogni cartella diventerebbe un doppione del documento ex art.4 D.Lgs. 626/94 o assomiglierebbe più ad una perizia medico-legale.
Ovviamente anche la Cassazione, che istituzionalmente interpreta le norme ma che già con la sentenza Farabi ha ampiamente dimostrato di non avere alcuna idea di cosa sia un Medico Competente o di come si articoli una sorveglianza sanitaria, si guarda bene dall'affermare che scrivendo le tre paroline "acido cloridrico, residui e derivati di oli minerali esausti, solventi contenenti glicoli" allora la salute sarebbe tutelata, limitandosi ad affermare apoditticamente come
il tenore letterale della norma e la sua ratio porta a concludere che la cartella assolva la sua piena funzione a tutela della salute del lavoratore se riporta, soprattutto in vista della sua possibile mobilità, i rischi specifici ambientali al quale lo stesso è sottoposto.
Inevitabilmente si finisce con il mettere a fuoco l'equivoco di fondo: la confusione fatta dall'UPG che ha innescato questa vicenda giudiziaria, tra una misura di igiene e una valutazione del rischio. Il "rischio" che viene indicato sulla cartella non è una "misura" di igiene, bensì il frutto di una "valutazione" propedeutica alle misure di tutela da adottare: la vera misura non è certo scrivere "acido cloridrico" su una cartella, bensì adottare un protocollo sanitario e un tipo di accertamento medico mirati a quel rischio che si è valutato come sussistente. Se il medico condannato non ha scritto acido cloridrico ma ha predisposto comunque un protocollo sanitario e di rischio mirato e adeguato al rischio, questa non è forse comunque una cartella sanitaria e "di rischio"?
Questa distinzione concettuale tra "valutazione di un rischio" e "misura di protezione" non era del resto sfuggita all'estensore dalle "Linee guida per l'applicazione del D.Lgs. 626/94" della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Provincie Autonome (pag.29):
[...] Non viene al contrario, sanzionato l'errore di merito che possa essere commesso nell'individuazione dei rischi e delle misure di prevenzione. Il datore di lavoro non risponderà, quindi sotto il profilo penale per avere commesso errori od omissioni nella valutazione ma se, in conseguenza di tale errore valutativo, avrà omesso le misure necessarie a tutela dei suoi dipendenti. A tale principio si richiama l'attenzione dei Servizi di prevenzione e vigilanza delle Aziende USL che dovranno utilizzare questo documento a peculiari fini di assistenza alle procedure di valutazione e non già come indicazioni per contestare inadempienze relative a modalità o conclusioni della valutazione in merito alle quali il datore di lavoro si assume la responsabilità della correttezza degli atti compiuti e delle azioni programmate.
Già le linee guida, pertanto, avevano rilevato ed evidenziato come inevitabilmente, per non violare l'art.25 della Costituzione, il reato del datore di lavoro, in caso di sinistro o tecnopatia, non potesse consistere mai nell'errore di "valutazione", ma solo nella mancata o inadeguata "adozione di misure preventive" dovute all'errore di valutazione del rischio. Errori, omissioni, modalità e conclusioni contenute nel documento non possono infatti essere mai di per sé sanzionabili: nessun ispettore può dunque entrare nel merito della valutazione del rischio né appaiono applicabili alle "modalità di redazione" del documento l'istituto della prescrizione, previsto dall'art.20 del D.Lgs. 758/94, né quello della disposizione previsto dall'art.20 del DPR 520/55.
Infine una piccola nota alla difesa tentata dall'imputato, il quale prova a ipotizzare che scrivendo sulla cartella i rischi professionali a cui è esposto il lavoratore verrebbe a violarsi il segreto industriale. Scontata la stroncatura da parte della Corte di Appello, confermata poi dalla Cassazione:
si è sostenuto che il sanitario non avrebbe potuto indicare in cartella i rischi lavorativi in quanto ciò avrebbe potuto costituire rivelazione del segreto industriale. A parte la primaria considerazione che il medico è tenuto solo al segreto professionale che gli compete, vale a dire a quello che è connaturato alla professione esercitata, non è chi non veda, allora, come portando alle estreme conseguenze l'assunto difensivo, il sanitario non dovrebbe neppure indicare le malattie che dovesse diagnosticare in quanto attraverso le stesse potrebbe risalirsi ugualmente al tipo di procedimento chimico, eventualmente usato in quella tal azienda. Il che non può certo pretendersi e sarebbe finanche privo di senso. Inoltre la cartella medica circola pur sempre nell'ambiente sanitario sicchè, vigendo il ricordato segreto professionale medico, non potrebbe e non dovrebbe trapelare in ogni caso alcunchè di quanto riportato su detti documenti.
(Corte App. Firenze 23 settembre 2002, est. Barbarisi, inedita).
Trattasi di una sentenza che apre scenari veramente insidiosi per l'attività del Medico Competente. A questo punto diventerà decisivo capire se sarà sanzionabile il fatto che il medico non scriva per niente i rischi nella cartella o se è sanzionabile addirittura il fatto che sbagli ad indicare i rischi o se ne dimentichi qualcuno. Dalla sentenza in esame non è possibile saperlo con certezza, anche perché si fa notare, l'incriminazione non riguarda tutte le cartelle ma una sola cartella (le altre erano allora per così dire "regolari"?). Quindi:
MedicoCompetente.it - Copyright 2001-2024 Tutti i diritti riservati - Partita IVA IT01138680507
Privacy | Contatti