Con il D.Lgs. 626/94 i compiti del medico competente (su cui, ovviamente, ricade l'onere della sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti a rischio cancerogeno) sono stati allargati, imponendogli un ruolo anche nelle attività più vicine alla vera e propria prevenzione primaria, così come si evince dall'art. 17-comma 1 h):
"congiuntamente al responsabile del servizio prevenzione protezione dai rischi, visita gli ambienti di lavoro almeno due volte all'anno e partecipa alla programmazione del controllo dell'esposizione dei lavoratori....".
Inoltre il medico competente deve valutare e fornire pareri sulla valutazione dei rischi (art. 4 comma 6 D.Lgs. 626/94) offrendo la propria collaborazione al datore di lavoro e al responsabile del servizio di prevenzione e protezione in merito alla stesura del documento sulla valutazione del rischio.
La prevenzione rimane tuttora l'arma più efficace nei confronti della patologia tumorale e tale prevenzione, una volta che sia riconosciuto il rischio, dovrebbe essere di tipo primario. Questo è ancor più vero per quei tumori che si manifestano in ambito professionale, dove l'adozione scrupolosa di idonee misure di igiene industriale o, quando necessario, le opportune modifiche tecnologiche sono in grado di ridurre in modo rilevante i livelli di esposizione, se non addirittura di eliminare le sostanze cancerogene dai cicli lavorativi.
A questi principi si è ispirato il D.Lgs 626 negli articoli al capo II (art. 62-68) del titolo VII "Protezione da agenti cancerogeni". Il datore di lavoro "evita o riduce l'utilizzazione di un agente cancerogeno sul luogo di lavoro in particolare sostituendolo, sempre che ciò sia tecnicamente possibile, [...]" con una sostanza che non è o è meno nociva per la salute. Se questo non è possibile, ad esempio quando si tratti di materie prime di notevole importanza, le esposizioni dei lavoratori dovrebbero essere minimizzate con la messa in atto di opportune misure di prevenzione tecnica (impianti a ciclo chiuso, automatizzazione delle operazioni) e di igiene ambientale e personale (uso di maschere, guanti, ecc.).
L'efficacia sull'esposizione degli interventi preventivi attuati dovrebbe essere controllata con un opportuno piano di monitoraggio ambientale e/o biologico.
Oltre al monitoraggio ambientale, un efficace controllo dell'esposizione a rischio cancerogeno dovrebbe poter avvalersi di indagini biologiche che in parte potrebbero anch'esse ricadere sotto il significato di prevenzione primaria ed in parte di prevenzione secondaria. Per prevenzione secondaria dei tumori si intende la diagnosi precoce delle neoplasie in una fase che ne permetta un trattamento radicale. L'efficacia di questo livello di prevenzione dipende dalla sede e dalla natura del tumore.
La situazione più semplice è quella dei tumori cutanei per cui, se diagnosticati in fase precoce con un'accurata ispezione durante le visite periodiche ed escissi chirurgicamente, possono essere considerare guariti nella quasi totalità dei casi.
Ben diversa è la situazione dei tumori polmonari, in cui la diagnosi precoce con l'esame citologico periodico dell'espettorato e/o con il controllo radiologico solo in casi eccezionali aumenta realmente la sopravvivenza. In particolare lo screening mediante esame citologico dell'espettorato non è proponibile per scarsa sensibilità del metodo, elevato rapporto costo/beneficio, mancato effetto positivo sulla sopravvivenza. Lo screening radiologico effettuato ogni 6-12 mesi (anche in combinazione con l'esame citologico dell'escreato) è gravato da un costo notevole, da un rischio cancerogeno, sia pur minimo e di difficile quantificazione, dall'elevato numero di false positività, per cui andrebbe riservato solo ai soggetti sintomatici (tosse, escreato, emoftoe, segni di ostruzione bronchiale, ecc.) o particolarmente a rischio, sulla base delle decisioni del medico competente.
Per quanto riguarda i tumori delle vie urinarie, l'esame citologico periodico del sedimento urinario si è dimostrato utile nella diagnosi precoce dei carcinomi papillari e non papillari di grado elevato, ed è risultato il metodo di elezione per la diagnosi del carcinoma in situ. Tuttavia la particolare biologia e la storia naturale dei tumori vescicali, nonchè le gravi conseguenze degli interventi radicali, fanno sì che alla diagnosi precoce faccia seguito un intervento conservativo che non previene la comparsa di altri tumori papillari o l'invasione dello stroma a partire da aree di carcinoma in situ. In mancanza di metodi migliori, comunque, il controllo citologico periodico del sedimento urinario rimane, insieme al controllo dell'ematuria, il metodo di scelta nella sorveglianza sanitaria di lavoratori a rischio.
La periodicità dei controlli consigliata a livello internazionale è comunque molto variabile (dai 6 mesi ai 2-5 anni) a seconda dei livelli espositivi, nonchè dell'età, del periodo espositivo e di eventuali concomitanti abitudini tabagiche. Per esempio si potrebbe considerare corretto, nei soggetti a rischio professionale molto elevato, eseguire gli accertamenti semestralmente e mantenere una periodicità semestrale anche in caso di rischio medio-basso per i lavoratori di età superiore a 45-50 anni, con almeno 5 anni di esposizione, specie se forti fumatori; tale controllo dovrebbe, inoltre, proseguire anche dopo la cessazione dell'esposizione.
Per altri tumori come l'angiosarcoma da cloruro di vinile non esistono al momento possibilità di diagnosi precoce.
Attualmente un approccio avanzato in ambito di sorveglianza sanitaria di esposti a cancerogeni non può fare a meno di una strategia basata anche sul monitoraggio biologico degli stessi lavoratori esposti. Per poter effettuare il monitoraggio biologico di un tossico sono necessarie alcune condizioni tra cui la dettagliata conoscenza della tossicocinetica e della tossicodinamica, la disponibilità e l'attendibilità dei metodi analitici, la conoscenza delle relazioni dose- effetto e dose-risposta.
L'avanzare delle conoscenze scientifiche circa le interazioni tra sostanze chimiche e materiale genetico ha reso attualmente disponibili diversi metodi di valutazione che consentono di affrontare il problema del monitoraggio biologico dell'esposizione. Esistono oggi diversi test che possono essere utilizzati per un monitoraggio a diversi stadi, dalla esposizione a sostanze chimiche mutagene/cancerogene, fino allo sviluppo di effetti:
Di tutte queste metodiche nessuna presa individualmente è sufficiente a identificare una situazione di rischio rispetto ad una esposizione: infatti, i soli dati di esposizione non indicano obbligatoriamente un rishio e d'altra parte gli indicatori di effetto biologico precoce sono aspecifici e rilevati in cellule diverse da quelle del tessuto bersaglio. È da tener presente anche che la maggior parte di questi metodi comporta costi notevoli. A dispetto di queste due ultime considerazioni comunque l'ideale sarebbe poter disporre per una determinata esposizione lavorativa di almeno un test di dose interna, uno di dose biologicamente efficace ed un test citogenetico per evidenziare effetti biologici precoci.
La determinazione della sostanza o di un suo metabolita in campioni biologici non è rilevante per evidenziare possibili interazioni con il materiale genetico nè fornisce indicazioni circa il rischio cancerogeno associato all'esposizione.
Tra i più avanzati metodi c'è la valutazione degli addotti al Dna. È stata infatti rilevata una relazione tra legame di sostanze chimiche o metaboliti reattivi elettrofili in bersagli quali Dna linfocitario, emoglobina o albumina ed il legame con il Dna in potenziali tessuti bersaglio. Tale legame è considerato associato ad effetti genotossici diretti, importanti per l'iniziazione del cancro.
Gli effetti biologici precoci possono essere valutati soprattutto attraverso gli studi di citogenetica nelle cellule somatiche e germinali umane.
Numerose sostanze sono state dimostrate responsabili di aberrazioni cromosomiche, scambi tra cromatidi fratelli o formazione di micronuclei se saggiate in vitro, mentre per un numero molto inferiore è stata dimostrata un'aumentata frequenza di tali manifestazioni citologiche in vivo in seguito ad esposizione professionale. Il metodo è considerato poco sensibile e non specifico. Le lesioni cromosomiche riflettono l'esposizione cumulativa.
Il loro significato per la salute non è ancora definitivo; tuttavia, un aumento significativo di aberrazioni cromosomiche in un gruppo di lavoratori esposti indica un effetto dovuto ad assorbimento di sostanze genotossiche e sembra ragionevole concludere che il rischio cancerogeno può risultare aumento a livello di gruppo, pur non essendo possibile stabilire una relazione causale tra aberrazioni nei linfociti e tumori nell'organo bersaglio.
È noto che lo sviluppo dei tumori è associato alla produzione o incremento di enzimi, ormoni, anticorpi, nucleotidi ed ai cosiddetti antigeni tumori-associati, che nell'insieme prendono il nome di "Marcatori tumorali", i quali possono peraltro essere rilevati anche in situazioni che comportino danno tissutale o proliferazione cellulare.
Il marcatore ideale dovrebbe essere prodotto solamente dal tessuto tumorale, presentare una alta sensibilità tale da consentire una diagnosi precoce degli stadi iniziali della malattia, avere una utilità non solamente diagnostica ma prognostica e terapeutica: non ultimo, il suo dosaggio dovrebbe essere rapido, affidabile, affatto complesso ed economico. In realtà, al momento attuale, noi non disponiamo ancora di marcatori che soddisfino questi requisiti dal momento che, come già accennato nel corso di questa trattazione, essi vengono espressi sia in presenza che in assenza di neoplasie, cioè non sono realmente tumore-specifici: non è quindi la loro "qualità " ma piuttosto la loro "quantità" ad indicare il processo neoplastico.
Ciò implica una inevitabile sovrapposizione dei valori del marcatore fra soggetti normali e soggetti con cancro. Attualmente i marcatori tumorali vengono comunemente utilizzati per la valutazione dell'efficacia di terapia antitumorale, nella diagnosi precoce e nel monitoraggio delle recidive dei tumori, ma più recentemente sono stati proposti (in particolare il CEA e le proteine associate ad oncogeni) per valutare gruppi di lavoratori a rischio per lo sviluppo di neoplasie.
Esperienze in tal senso sono state condotte su esposti a cloruro di vinile monomero, idrocarburi policiclici aromatici, asbesto, ma gli studi non sono ancora tali da consentire di valutare il valore predittivo di tali marcatori.
La nuova frontiera nella diagnostica oncologica, e quindi anche nelle metodiche di sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti a rischio cancerogeno, è rappresentata dai risultati dello studio della genetica del cancro. Negli ultimi anni si è infatti assistito ad una imponente attività di ricerca in questo settore che ha portato a tre principali linee di lavoro, peraltro profondamente embricate fra loro:
Lo studio degli oncogeni e dei geni oncosoppressori ha portato all'identificazione di numerosi parametri collegati alla prognosi ed alla probabilità di risposta alla terapia di neoplasie diverse. Basti ricordare, a titolo di esempio, l'oncogene erbB2 ed il gene oncosoppressore p53, che sono stati diffusamente studiati ad esempio nel cancro della mammella.
In linea generale questi marcatori vengono studiati nel tessuto del tumore primitivo. Del tutto recentemente, l'espressione dei prodotti di alcuni di questi oncogeni o geni oncosoppressori o di anticorpi sviluppati contro di essi è stata studiata anche nel sangue, con risultati promettenti per quanto riguarda in particolare gli anticorpi anti-p53.
Tuttavia, la determinazione di questi parametri sia nel tessuto che, soprattutto, nel sangue va considerata ancora area di ricerca clinica. Infatti, prima di un approccio routinario su larga scala, restano ancora da determinare i seguenti aspetti:
Va inoltre ricordata una promettente e del tutto recente area di studio che utilizza le tecnologie di biologia molecolare per identificare singole cellule tumorali nel sangue. Questo approccio metodologico che rappresenta sicuramente una nuova strada diagnostica in oncologia, necessita peraltro di una attenta e critica valutazione metodologica prima di essere proposto per un utilizzo routinario.
Un cenno a parte merita il capitolo degli indicatori di suscettibilità. Nella "epidemiologia biochimica", che affianca il consueto metodo epidemiologico al metodo biochimico, al fine di migliorare la qualità sia della misura dell'esposizione sia dell'interpretazione degli studi epidemiologici, oltre agli indicatori di dose e di risposta biologica precedentemente descritti, vengono oggi utilizzati anche gli indicatori di suscettibilità, che consentono di individuare soggetti portatori di un assetto genetico che potrebbe predisporre al cancro, a seguito di peculiari caratteristiche del metabolismo di cancerogeni o nella riparazione dei danni al Dna.
Un primo esempio può essere quello relativo ai carcinomi della vescica da amine aromatiche e l'osservazione di un rischio diverso in relazione alla differente capacità di detossificare i metaboliti attivi mediante acetilazione: gli acetilatori lenti sono a maggior rischio rispetto agli acetilatori rapidi. Per i tumori polmonari da IPA, i metabolizzatori veloci della desbrisochina sono a rischio notevolmente aumentato rispetto ai metabolizzatori lenti e intermedi. L'applicazione di tali screening genetici pone, però, problemi etici e sociali non indifferenti.
In particolare non si dovrebbe correre il rischio di finire per sostituire la prevenzione primaria con una strategia di selezione di " popolazioni più resistenti" al rischio cancerogeno, riducendo inoltre la possibilità di lavoro a tutti gli altri. Semmai più correttamente il monitoraggio genetico potrebbe essere utilizzato nella sorveglianza sanitaria per una più idonea collocazione lavorativa del dipendente, ma non in fase pre-assuntiva a scopo di selezionare lavoratori resistenti.
La migliore strategia di sorveglianza sanitaria consiste ovviamente nel riuscire ad adattare le metodiche più idonee alle singole situazioni lavorative, utilizzando di volta in volta gli strumenti disponibili e che più si attagliano a quello che comunque dovrebbe rimanere l'obiettivo comune per tutte le parti in causa: la salvaguardia della salute del lavoratore come suo diritto individuale e come interesse collettivo dell'intera comunità, in termini morali, solidaristici, ma anche in termini economici visto il costo sociale della malattia professionale.
In questo contesto appare evidente come il raggio d'azione del medico competente debba essere considerato molto ampio. Sulla base delle considerazioni prima svolte si può affermare che sia la tipologia degli accertamenti sanitari preventivi e periodici sia la loro periodicità debbono essere rapportati al tipo di pericolo, alla valutazione del rischio specifico in quel dato luogo di lavoro (qualità e quantità, esposizione, prevenzione e protezione) ed alle caratteristiche individuali e di gruppo degli esposti.
È chiaro quindi come il protocollo sanitario non può essere stabilito per legge (anche se sarebbero molto utili linee guida specifiche per rischio e lavorazione) ma individuato ed applicato sotto la responsabilità del medico competente. Il quale potrebbe, per esempio, diluire la periodicità delle visite mediche per tutte le esposizioni a sostanze cancerogene che non interessino la cute mentre potrebbe aumentare la frequenza per gli accertamenti ematochimici per gli esposti a radiazioni (specie se la valutazione mostra una situazione ad elevato rischio) o introdurre indagini biomolecolari al posto di poco specifici classici esami diagnostici.
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